domenica 26 febbraio 2012

E SE L’OSCAR 2012 LO VINCESSE UN FILM MUTO?


A mio parere non potrebbe esserci premio più emblematico nell’era della tecnologia sfrenata, delle invenzioni a getto continuo e, restando strettamente in ambito cinematografico, del tridimensionale a tutti i costi, che l’Oscar come miglior film ad una pellicola muta e in bianco e nero. Già, perché lo scorso anno una delle opere più sorprendenti viste in sala è stata The Artist di Michel Hazanavicius, un film francese dall’affascinante sapore classico del cinema degli anni ’20- ’30, incentrato sulla parabola discendente di un “mito del muto” alle prese con l’arrivo del sonoro nella Settima Arte, invenzione che lo emargina professionalmente gettandolo nello sconforto e nella povertà, fino a che non sarà l’amore a salvarlo; amore per una donna e per il Cinema. E di atto d’amore per il Cinema si deve parlare per la vera e propria sfida di The Artist, sfida stravinta a prescindere dalla quantità di Oscar che riuscirà a vincere; le candidature  sono 10 e non è escluso che se le statuette conquistate dovessero essere al massimo due o tre risultino tra le categorie più importanti, come film, regista e attore protagonista.
Il piccolo capolavoro muto dovrà vedersela per la vittoria degli Oscar soprattutto con un altro atto d’amore verso il Cinema delle origini, Hugo Cabret di Martin Scorsese. Se il 3D è risultato più un vezzo che una necessità per quest’opera, di certo va elogiato lo straordinario lavoro di Scorsese che dalla messinscena alla regia alla narrazione della commovente favola-elogio della “magia” di George Melies meriterebbe di trionfare nella maggior parte delle 11 categorie in cui è stato nominato dall’Academy; per la scenografia potrei metterci la mano sul fuoco ma non si sa mai, quindi diciamo che anche per questioni di campanilismo tifo per Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo e penso che chiunque abbia visto la bravura con cui hanno ricostruito la stazione e la città di Parigi sarà d’accordo con me.
A proposito di Parigi, un altro film che potrebbe a sorpresa portarsi via qualche riconoscimento nella notte degli Oscar è Midnight in Paris di Woody Allen, che a malincuore devo escludere tra i probabili vincitori per la migliore pellicola e quasi sicuramente per la regia, anche se detto tra noi Allen meriterebbe il premio per la direzione almeno ogni paio d’anni; mentre ha buone possibilità per la sceneggiatura originale se non dovesse primeggiare The Artist. Per la sceneggiatura non originale invece la lotta è piuttosto dura e oltre al favorito Hugo Cabret concorrono le meritevoli e interessanti trasposizioni di Le Idi di Marzo, La Talpa e Paradiso Amaro. Proprio Paradiso Amaro è l’outsider per eccellenza per tutti i riconoscimenti maggiori per gli Oscar 2012: il bel film di Alexander Payne ha già vinto ai Golden Globe ed è uno dei lavori più apprezzati anche perché fa parte di quella nuova cinematografia “minimalista”, semplice, dei sentimenti ma non scontata e noiosa a cavallo tra dramma e commedia; e non è escluso che i membri dell’Academy abbiano rivolto molte delle loro preferenze a questo tipo di lavoro, chissà forse anche per l’interpretazione atipica di George Clooney che potrebbe essere preferito al bravissimo francese Jean Dujardin per molti già sicuro del riconoscimento.
Gli Oscar alle interpretazioni sono incerte come le altre anche se salvo grosse sorprese tra le donne per la protagonista la partita dovrebbe essere tra l’Iron Lady Meryl Streep e l’Albert Nobbs Glenn Close, ma occhio a Michelle Williams per My Week with Marilyn; per la non protagonista lo scenario è meno delineato ma opterei per una delle due attrici del film The Help. Tra gli interpreti maschili se per il protagonista oltre ai due già citati vanno menzionati un mastodontico Gary Oldman per la spy story La Talpa e un bravo Brad Pitt stranamente candidato per L’arte di Vincere e non per  The Tree of Life, per il non protagonista le candidature riguardano dei mostri sacri come Max Von Sydow (Molto forte, incredibilmente vicino) , Christopher Plummer (Beginners), Nick Nolte (Warrior) e Kenneth Branagh (My week with Marilyn) con quest’ultimo lievemente favorito anche se la sorpresa del giovane Jonah Hill (L’Arte di Vincere) non è da sottovalutare.
Per concludere, prima di stilare una rischiosa e quantomai azzardata lista di probabili vincitori, voglio segnalare gli eventuali sconfitti della notte degli Oscar, in questo caso da citare per la grandezza dei nomi ma non perché si aspettino riconoscimenti che risulterebbero davvero sorprendenti se dovessero arrivare: Terence Malick e il suo The Tree of Life (a mio avviso opera cinematograficamente eccezionale), Steven Spielberg e War Horse, David Fincher e Uomini che odiano le donne.

PREVISIONI (PREFERENZE) PER GLI OSCAR 2012
di Paco De Renzis

film
THE ARTIST


regista
MARTIN SCORSESE (quasi mai questo premio va ad un regista diverso da quello che ha diretto il film vincitore dell’Oscar…ma stavolta…)


Attrice protagonista
GLENN CLOSE


Attore protagonista
JEAN DUJARDIN (anche se Gary Oldman…)


Attrice non protagonista
BERENICE BEJO (ma tanto la spunta una tra Spencer e Chastain)


Attore non protagonista
MAX VON SYDOW


Sceneggiatura originale
MIDNIGHT IN PARIS


Sceneggiatura non originale
PARADISO AMARO


Film d’animazione
RANGO


scenografia
HUGO CABRET

fotografia
THE TREE OF LIFE


costumi
THE ARTIST

Film straniero
UNA SEPARAZIONE

trucco
ALBERT NOBBS

Colonna sonora originale
THE ARTIST


canzone
REAL IN RIO


Effetti speciali
HUGO CABRET

documentario
PINA


montaggio
HUGO CABRET

Sonoro
HUGO CABRET

Montaggio sonoro
DRIVE (una vergogna abbia solo una nomination…quindi almeno glielo diano sto premio)

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE


Pasquale De Renzis

sabato 25 febbraio 2012

PARADISO AMARO – sorrisi e malinconia nel più classico dei “dramedy”


La capacità di raccontare storie unendo dramma e commedia senza risultare approssimativi è rara nella cinematografia moderna. Uno dei più abili e apprezzati registi di “dramedy” è senza dubbio Alexander Payne che, dopo l’esordio in sordina nel ’99 con Election, ha dato vita ad un’evoluzione qualitativa realizzando tre film che rappresentano alcuni tra i migliori esempi di fusione tra genere drammatico e commedia. A proposito di Schmidt e Sideways nel giro di due anni avevano rivelato la possibilità di narrare stati d’animo al limite della depressione con un umorismo intelligente e senza forzature comiche inutili, e Payne aveva trovato in eccellenti interpreti come il mito Jack Nicholson e Paul Giamatti due protagonisti ideali per quelle storie.
Ci sono voluti, poi, ben sette anni al regista per decidersi a trasporre sul grande schermo il romanzo a dir poco particolare di Kaui Hart Hemmings, quel Paradiso Amaro che già dal titolo preannunciava una parabola non del tutto rasserenante, e visto gli elementi narrativi portanti il sentore era giustificato: una donna entra in coma dopo un incidente facendo sci nautico e costringe il marito a prendersi cura delle figlie che fino ad allora aveva affettuosamente snobbato; l’uomo, che si sta occupando di vendere un possedimento di famiglia dalla rendita milionaria, scopre che la moglie era intenzionata a mollarlo perché innamorata di un agente immobiliare con cui lo tradiva…e dove può venir fuori la commedia in una storia del genere?
Innanzitutto il Paradiso in questione è lo Stato delle Hawaii, e il prologo della pellicola descrive esattamente l’assurdità del luogo comune di non poter considerare amara un’esistenza vissuta in quella parte di mondo: la commedia prende vita principalmente dall’insieme di personaggi che circondano il protagonista e soprattutto le due figlie e l’amico del cuore della maggiore.
Ognuna delle personalità tirate in ballo mostra una reazione differente a ciò che sta accadendo e la narrazione prende una piega inaspettata mettendo in parallelo il sentimento di dolore profondo per le condizioni della madre/moglie tenuta in vita dalle macchine in stato vegetativo e l’imprevista quanto anomala emozione per la (ri)nascita del rapporto padre-figlie proprio in un momento così tragico.
Come nelle due precedenti pellicole Alexander Payne rende anche quest’ultimo lavoro alla stregua di un road movie, di certo per il senso avventuroso che dà alla storia utilizzando tale espediente per fondere magistralmente tra loro commedia e genere drammatico.
Il particolare da non sottovalutare riguarda l’attore che interpreta il protagonista svestendo i panni consueti che lo avevano reso celebre e amato dal grande pubblico: George Clooney è convincente nonostante la natura imbolsita del personaggio, il fascino smarrito nelle camicie hawaiane e nella condizione di perdente negli affetti e nelle certezze emotive lo accompagnano in un viaggio alla ricerca di risposte che il padre/marito protagonista necessita per capire cosa veramente è stato della sua vita fino ad allora.
Sorprendenti le giovani attrici Amara Miller e Shailene Woodley nei panni delle figlie di Clooney.
Paradiso Amaro è una dimostrazione emblematica di come si possa fare cinema classico con una scrittura e uno stile registico decisamente moderni.

articolo pubblicato da NAPOLI.COM e L'INDIEPENDENTE WEBZINE


Pasquale De Renzis

sabato 18 febbraio 2012

POLISSE storie di “ordinaria” violenza…sui minori


Al Festival di Cannes 2011 questo film della regista-attrice Maiwenn ha conquistato il Premio della Giuria e ha sorpreso per l’approccio narrativo ad una tematica piuttosto ardua da trattare sotto vari punti di vista. Maiwenn colpita da un documentario visto in tv ha deciso di raccontare la routine quotidiana di una particolare squadra di agenti di polizia francesi: il gruppo BPM (Brigate per la Protezione dei Minori) si occupa di reati subiti dai minori come molestie e abusi e di reati compiuti dai minori in molti casi sfruttati dagli adulti per la loro impunibilità. La difficoltà di trattare il dramma della violenza sui bambini unita alla volontà di non fare il quadretto dei poliziotti belli buoni e felici rende toccante e interessante la pellicola che in effetti rasenta lo stile documentaristico, la telecamera non ingombra e si infiltra tra gli attori seguendoli nel loro vivere e agire. Le testimonianze molto crude e tutte riprese da fatti realmente accaduti lasciano sgomenti e rendono appieno l’idea delle sensazioni provate dagli agenti che si trovano quotidianamente a dover avere a che fare con tali situazioni e determinate persone; anche per questo il parallelo con le complicate vite private di ognuno dei componenti la BPM diventa fondamentale per comprendere le problematiche emotive dei personaggi che sono anche costretti a combattere con una scarsa considerazione di colleghi di altri reparti e delle alte sfere della polizia, oltre a dover fronteggiare continui tagli di fondi e mezzi per il loro lavoro. Polisse parla di pedofilia, del mondo adolescenziale, di violenza familiare, di incesti coperti dal potere, parla del difficile lavoro del poliziotto quando si è alle prese con certi reati che, potendo coinvolgere in modo estremo, vengono seguiti dagli agenti interessati solo fino al momento dell’arresto, nulla di quello che avviene dopo li deve più riguardare. La scelta di alternare momenti gioiosi a quelli drammatici fa parte del realismo imposto al lavoro nato dopo mesi di affiancamento della regista ad un reparto di Protezione Minori, e la familiarità e l’affetto mostrato nel film tra i poliziotti rispecchia l’esperienza vissuta da Maiwenn che allo stesso tempo ha verificato la nascita di tensioni all’interno del gruppo per approcci diversi alle situazioni e per condizioni psicologiche qualche volta al limite della sopportazione. Sono quasi certo che, purtroppo, nelle sale italiane Polisse (storpiatura del termine “police” dovuta ad uno degli errori grammaticali più frequenti per i bimbi transalpini) passerà inosservato, una meteora con scarsa distribuzione; ma ciò che mi auguro è che il cosiddetto servizio pubblico della televisione italiana si assicuri quanto prima i diritti di questo film davvero importante per discutere di una tematica drammatica sempre più presente nella società contemporanea.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE e da NAPOLI.COM



Pasquale De Renzis

lunedì 6 febbraio 2012

WAR HORSE – l’epica delle emozioni (buoniste) firmata Spielberg


Impossibile ci si trovi al cospetto di un film banale quando a dirigerlo è uno dei maestri della cinematografia moderna come Steven Spielberg; e banale sarebbe soffermarsi ad elencare le numerose pellicole da lui girate che hanno inciso profondamente sull’evoluzione della Settima Arte. Eppure c’è un marchio inconfondibile del regista di E.T. , più nella ricerca degli sviluppi narrativi delle sue storie che non nello stile, sempre differente e a suo modo innovativo. Il marchio spielberghiano sta nella speranza, che non deve mancare nei suoi lavori, e che in molti casi può risultare forzata, eccessiva, il trionfo delle emozioni buoniste anche se in contesti storici tragici. La firma consolatoria non manca certo in War Horse, l’ultima fatica che il regista porta nei cinema: un film dalla perfezione stilistica disarmante, dalla narrativa commovente e fluente. La visione di quest’opera di Spielberg dà la medesima sensazione che si prova nella lettura di un romanzo classico che non ti delude con lo scorrere delle pagine, ti avvolge con una bellezza rassicurante e ti attira immergendoti in una storia che ti incuriosisce ad ogni cambio scena; ma nonostante la crescente curiosità provocata da un’affascinante modo di raccontare, la sensazione è che si sappia benissimo quale sarà la chiusura del cerchio, e spesso questa convinzione può non far godere appieno dell’egregio disegno della circonferenza. War Horse ha un sapore epico-bucolico e incrocia le vicende di numerosi personaggi uniti dal protagonista assoluto della storia, il cavallo Joey che, dalle campagne inglesi del Devon ai campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, partecipa ad eventi che, suo malgrado, condizioneranno le vite di molti esseri umani.
Immagini e riprese splendide sia che ci si trovi nelle campagne che nelle trincee; omaggi sparsi lungo tutto il film al cinema classico americano; cast di spessore con nomi come Peter Mullan e Emily Watson, Tom Hiddleston e la sorpresa Jeremy Irvine. La storia è basata su un romanzo pubblicato dallo scrittore inglese Michael Morpurgo ed era già stata rapprsentata in teatro con grande successo nel 2007. La durata di oltre due ore non appesantisce la visione anche se potrebbe scoraggiare molti degli spettatori moderni affezionati al mordi e fuggi. 

 articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE

Paco De Renzis

venerdì 3 febbraio 2012

MILK: una storia di conquiste sociali e diritti civili con uno Sean Penn da Oscar

Harvey Milk era un ragazzo di New York, figlio di un commerciante di tessuti; trasferitosi a San Francisco cominciò a dedicarsi corpo ed anima alla causa del movimento omosessuale. I diritti negati, l’emarginazione dalla vita pubblica, l’intolleranza e i soprusi subiti dai gay erano situazioni all’ordine del giorno nell’America puritana degli anni ’70, anche per questo il numero delle persone che dichiaravano la loro omosessualità era davvero esiguo.
Così Harvey decise di “reclutare” tutti quelli che avevano intenzione di battersi per conquistare il loro spazio, come ogni altro essere umano, nella società non nascondendo il suo stesso orientamento sessuale, e si presentò alle elezioni comunali di San Francisco diffondendo le problematiche per cui lottava e coinvolgendo con le sue battaglie anche gli eterosessuali.
Per ben tre volte non riuscì ad essere eletto ma con il passare degli anni il suo movimento ebbe una crescita talmente considerevole da attirare attenzioni a livello nazionale: finchè nel ’78 la scalata agli uffici comunali andò in porto e Milk divenne il primo omosessuale a ricoprire una carica pubblica, per scelta del popolo.
L’ostracismo della Chiesa e degli integralisti cattolici, l’omofobia imperante e il rifiuto categorico ed ignorante di qualsiasi tipo di diversità erano purtroppo ancora forti e ben presenti nella società americana, e il muro contro muro che il movimento gay si trovava spesso ad affrontare era naturalmente impari visto le connotazioni ricattatorie e distruttive del bigottismo di buona parte delle lobby di potere: una delle leggi più assurde che negli anni ’70 venne proposta e in molti Stati messa in atto fu quella che vietava agli omosessuali di insegnare nelle scuole.
Per merito di Milk e della sua battaglia da consigliere comunale questa vergognosa legge, che andava sotto il nome di “Proposition 6”, non venne approvata nello Stato della California; ma qualche giorno dopo questo trionfo politico e a pochi mesi dalla sua elezione Harvey venne ucciso…era il 27 novembre 1978 e gli spari che gli erano stati promessi in numerose minacce del passato quel giorno arrivarono puntuali a togliergli la vita.  
A raccontare con maestria gli ultimi otto anni di vita di Harvey Milk è Gus Van Sant, uno dei registi più estrosi della moderna cinematografia indipendente americana.
Alternando immagini di repertorio a scene di finzione il regista riesce a narrare senza eccessi e stravaganze una storia privata che diventa importante, essenziale per la collettività: la decisione di girare nel quartiere di Castro a San Francisco, lì dove Milk visse e gettò le basi del movimento omosessuale, dà maggiore forza all’incrocio di fiction e realtà scelto per il film.
Gli aspetti tecnici, dalle riprese al montaggio, non avrebbero avuto uguale risalto se a rappresentare i personaggi di questa storia non ci fosse stato un gruppo di attori a dir poco camaleontici: eccezionali Emile Hirsch (Into the wild), James Franco (“Nella valle di Elah”), Diego Luna(“I diari della motocicletta”), Josh Brolin(“Non è un paese per vecchi”); più che sorprendente il mastodontico Sean Penn che, nei panni di Harvey Milk, rimette in discussione tutta una carriera di ottimo interprete per un ruolo difficilissimo, immedesimandosi alla perfezione e riuscendo nell’impresa di far guardare allo spettatore la maschera che interpreta senza far pensare all’attore che la sta vestendo, e di conseguenza all’incredibilità eventuale nell’associare interprete e ruolo rivestito.
L’importanza del personaggio che viene raccontato in “Milk” è valutabile anche attraverso la storia personale del regista: Gus Van Sant decise di dichiarare apertamente la propria omosessualità dopo l’uccisione di Harvey Milk, dopo essere venuto a conoscenza di quello che quest’uomo aveva fatto per le minoranze emarginate, dopo aver letto i discorsi in cui lui diceva che era necessario uscire allo scoperto manifestando il proprio orientamento sessuale se si voleva davvero far cambiare le cose, vedere riconosciuti i propri diritti.
Van Sant ancora una volta regala un’opera di rara intensità; ormai ogni suo lavoro è atteso con curiosità, non solo per le assodate qualità tecniche ma per la capacità di trattare argomenti spinosi con tatto e stupendo sempre più per il coinvolgimento emotivo in cui attira lo spettatore, fregandosene altamente del politically correct: da “Drugstore Cowboy” a “Belli e dannati”, da “Wiil Hunting” a “Elephant”, da “Paranoid Park” all’ultimo “Milk”, senza dimenticare i controversi  “Da morire”, “Cowgirl”, “Scoprendo Forrester” e “Last Days” , secondo me inferiori ai sovracitati.
La parabola di Milk non è dissimile da quella di personaggi storici come Martin Luther King, anzi: una vita sacrificata per i diritti umani e civili, per qualcosa in cui si crede, una battaglia combattuta attraverso un movimento d’opinione, una capacità di coinvolgimento di persone che senza questi leader avrebbero trovato l’oblio nella loro emarginazione o avrebbero cercato strade violente e sanguinose per ribellarsi alla loro condizione.
È importante che certe storie vengano diffuse a distanza di anni; compito e merito del Cinema è il saperle raccontare come in questo caso.  

articolo pubblicato da SETTIMO POTERE


Paco De Renzis