mercoledì 28 dicembre 2011

INTERVISTA A FEDERICO VACALEBRE Il “Virgilio” napoletano dell’avventura musicale di John Turturro


Per immergersi e orientarsi nell’immaginifica vastità dell’universo della musica napoletana John Turturro non poteva trovare migliore collaboratore di Federico Vacalebre, giornalista e redattore de Il Mattino, ideatore e direttore artistico del Premio Carosone, consulente dell’Archivio Sonoro della Canzone Napoletana; grazie alla sua competenza ed enciclopedica conoscenza dell’argomento il critico musicale napoletano ha supportato il regista italo – americano nella scrittura di soggetto e sceneggiatura di “Passione”, vivendo da protagonista la nascita e l’evoluzione di questa “avventura musicale”.

Come è nata la collaborazione con Turturro? Vi conoscevate o è stato il progetto di quest’opera a farvi incontrare per la prima volta?
“Non conoscevo John di persona, ma solo per i suoi film. Il produttore Carlo Macchitella che, insieme con Luciano Stella della Film Commission Campania, ha dato il la a questa operazione cercandomi per sapere che cosa ne pensavo dell’idea di un film sulla canzone napoletana, mi ha parlato della sua disponibilità ad essere coinvolto; così ci siamo incontrati per la prima volta a Roma, eravamo ancora alla vigilia delle elezioni presidenziali americane: lui indossava la spillona “Yes we can”. E quello è diventato il nostro slogan: yes we can, Obama può vincere e noi possiamo fare un film su cantaNapoli nel terzo millennio. Così è stato”.

Vista la particolarità di “Passione”, che di certo non può essere definito un film né un documentario tradizionale, in che modo avete proceduto in fase organizzativa e di scrittura?
“Siamo partiti dalle canzoni, all’inizio il mio compito era quello del consulente musicale. Ho preparato a John cd con centinaia di canzoni in diverse interpretazioni, gli ho raccontato i generi e gli stili della canzone napoletana classica e moderna, fornito dei libri di orientamento, mostrato facce e corpi, tradotto testi e vite di autori e interpreti. Scelte le canzoni siamo passati alla scelta degli interpreti e degli arrangiamenti, poi, dopo i primi sopralluoghi napoletani, è iniziato il work in progress della scrittura, abbiamo messo mano a soggetto prima e sceneggiatura dopo ambientando ogni canzone, scegliendone la realizzazione (live, playback, simil-sceneggiata) e cercando facce e storie con cui completarle: i fratelli Esposito della Phonotype, Salvatore Palomba, lo chef don Alfonzo, le persone incontrate per strada, i ragazzi canterini. Fondamentale, è stato, poi, il montaggio di Simona Paggi, che ha trovato il ritmo giusto per la nostra narrazione”.


La scelta delle canzoni è avvenuta in base a qualche criterio preciso? L’ultima parola l’ha avuta il regista per la lista definitiva?
“Assolutamente sì. Tranne “’O sole mio”, che non poteva mancare, abbiamo eliminato quelle stranote, cercando capolavori da (ri)lanciare, in alcuni casi da presentare al mondo, cercando di essere il più rappresentativi possibili, ma senza avere la sindrome “enciclopedia”. Di Giacomo e Bovio ci sono, mancano altri autori importanti, come mancano alcuni temi, quello dell’emigrazione ad esempio: volevamo girare “ ’A cartulina ‘e Napule”, ma tra problemi di location e di tempo ci abbiamo dovuto rinunciare, come abbiamo girato diverse canzoni tagliate dal film, per problemi di durata o di riuscita. Probabilmente le vedrete come extra nell’edizione su dvd. Certo, alla fine l’ultima parola era di Turturro, ma abbiamo proceduto in perfetta sintonia, si è fidato del suo “Virgilio”,, come mi ha definito con eccesso di bontà”.


Molti critici hanno sottolineato alcune assenze nella selezione musicale, sia per quanto riguarda le canzoni che il cast di artisti: premettendo che , a mio parere, non basterebbe un documentario di dieci ore per includere tutte le canzoni e gli artisti napoletani meritevoli di citazione, c’è una rinuncia che personalmente ti è risultata più dolorosa?
“Avrei voluto Giulietta Sacco, regina della canzone napoletana, ma si è praticamente ritirata e non esistevano immagini  d’archivio che le rendessero giustizia. Mi dispiace, e a John pure, non avere raccontato Murolo, non aver coinvolto Nino D’Angelo ed Enzo Gragnaniello, ma è solo un film, non l’enciclopedia della canzone napoletana. E ci dispiace non avere canzoni strepitose come “Silenzio cantatore”, ma anche “’Na bruna”: è evidente che ci sono scelte di campo, gusti in campo, analisi estetiche e critiche, dall’interno (la mia), e dall’esterno (la sua). Abbiamo conciliato melodia e ritmo, passato remoto e passato prossimo….”.

Quasi tutte le canzoni presenti in “Passione” hanno un’inedita veste sonora rispetto all’originale: per gli arrangiamenti delle nuove interpretazioni i musicisti hanno avuto totale libertà creativa?
“Abbiamo scelto arrangiamenti che ci erano piaciuti, spesso ne abbiamo commissionati di nuovi, per esempio chiedendo a Peppe Barra di incontrare  Max Casella e M’Barka Ben Taleb per una nuova versione di “Tammurriata nera”, o a Raiz di aggiungere Pietra Montecorvino e di nuovo M’Barka per “Nun te scurdà”: scelte in sintonia con gli arrangiamenti di Eugenio Bennato per la Montecorvino, con quelli di Enzo Avitabile (che ha prodotto per noi la “Caravan petrol” con Fiorello, John e Max). A proposito: è uscito il cd della colonna sonora”.

Si è parlato di “Carosello napoletano” per assimilare il vostro lavoro a un progetto del passato, eppure io l’accosterei molto di più a opere quali “Buena Vista Social Club” per la capacità di integrare musica ed immagini raccontando la realtà di un luogo. Grazie anche agli archivi Rai e dell’Istituto Luce, “Passione” diventa un affresco della città di Napoli e della sua storia tormentata e dolorosa: per te cosa ha significato e cosa rappresenta questa avventura musicale?
“Il film di Giannini resta ineguagliabile perché rappresenta l’eufonia napoletana prima che l’armonia fosse perduta. Quello di Wenders ha in Ry Cooder un minimo comun denominatore che noi abbiamo evitato per rendere appieno l’anarchia vitale di cantaNapoli. Per me “Passione” è stata una fondamentale esperienza umana, artistica e professionale”

Da “‘O sole mio” a “Napule è”, da “Era de maggio” a “Nun te scurdà”, in “Passione” la storia della musica partenopea viene rappresentata da alcune perle autoriali e interpretative di epoche diverse: come vedi il panorama contemporaneo della canzone napoletana? Ci sono nuovi talenti che lasciano ben sperare o il groove partenopeo è aggrappato esclusivamente ai musicisti già affermati?
“Ci sono grandi voci e personaggi come Gennaro Cosmo Parlato che nel film propone un’originalissima “Maruzzella”. Ci sono rapper interessanti, ci sono i protagonisti del neapolitan power ancora sulla cresta dell’onda. Ma…credo che serva accettare la sfida della modernità: non sarà bello, ma il remix di “Tu vuo’ fa‘ l’americano” degli australiani Yolanda Be Cool ha fatto il giro del mondo. A Napoli non ci aveva pensato/provato nessuno, e si che fare di meglio sarebbe stato molto facile. CantaNapoli, comunque, resiste e rilancia, grazie anche a “Passione”, speriamo. Il film dopo Venezia e Toronto è stato presentato a Valparaiso nell’ambito delle iniziative del Forum delle culture, uscirà in Francia, Germania e Polonia, e John ha iniziato a testare il responso in America”.
  
(articolo pubblicato sul numero di novembre 2010 de il Mediterraneo)






Pasquale De Renzis

martedì 27 dicembre 2011

EMOTIVI ANONIMI una “delizia” di commedia sull’emotività estrema


Gli elementi che possono rendere una commedia piacevole sicuramente variano a seconda dei gusti dello spettatore; eppure Emotivi Anonimi ha il sapore di quei film che difficilmente possono scontentare qualcuno. Anche gli allergici al cinema transalpino troveranno una grazia particolare nella pellicola di Jean-Pierre Ameris, e il divertimento non manca, seppure non è a risate grasse né di certo a battute demenziali che si va incontro. La storia di Jean-Renè e Angelique, proprietario e dipendente di una fabbrica di cioccolato, è incentrata sulla loro ipersensibilità emotiva; uno stato d’animo che li rende incapaci di liberarsi da fisime e timidezze nel rapporto con gli altri, vivendo un’esistenza condizionata in tutto e per tutto. L’incontro di due personalità estreme di emotivi cronici non può che provocare situazioni di totale imbarazzo, ancor di più se nel tentativo di combattere le rispettive timidezze scoppia l’amore che nessuno dei due però ha il coraggio di rivelare all’altro…tutto questo con lo sfondo delizioso del cioccolato.
Emotivi Anonimi è un titolo preso giustamente a prestito da un’associazione che ha stessa identica struttura e percorso di quelle più conosciute degli alcolisti anonimi: i gruppi organizzati da tale associazione sono formati da persone di ogni età e provenienti dai più svariati ambiti sociali che si incontrano a cadenza settimanale per imparare a convivere con le proprie emozioni e ritrovare l’equilibrio emotivo. Potrebbe sembrare una condizione non tanto problematica quella degli iper-emotivi, ma in realtà l’esistenza di una organizzazione come quella degli “Emotivi Anonimi” ha messo in luce una questione che condiziona la vita sociale di numerose persone che non di rado sviluppano forme di depressione e disturbi di vario genere per colpa di questo stato; è importante che un argomento del genere sia stato trattato dal cinema e soprattutto in una commedia.


Pasquale De Renzis

PASSIONE - L’affascinante percorso di John Turturro nella canzone napoletana


È possibile raccontare la canzone napoletana in un film-documentario della durata di poco più di un’ora e mezza? Assolutamente no, e l’errore più grande nell’approccio e nella visione di “Passione” sarebbe quello di considerarlo un sunto emblematico della storia della cultura musicale partenopea: in fallo sono caduti in tanti parlando e scrivendo di quest’opera, arrivando persino ad ignorare l’indicazione che l’autore ha voluto dare aggiungendo un sottotitolo quanto mai significativo, “un’avventura musicale”.
Uno degli attori più eclettici della cinematografia moderna, John Turturro, è rimasto stregato dalla cultura napoletana, e dopo aver portato nei teatri di tutto il mondo “Questi Fantasmi” di Eduardo De Filippo ha deciso di esplorare più che omaggiare la città di Napoli attraverso un’emozionante racconto scandito dalla musica, la forma d’arte che più di ogni altra ha reso famosa la città di Partenope.
Turturro si è avvalso della collaborazione del giornalista e studioso musicale Federico Vacalebre, con cui ha scritto soggetto e sceneggiatura, per immergersi e orientarsi allo stesso tempo nell’immaginifica vastità dell’universo della musica napoletana: l’avventura che l’attore esemplifica in ritmo ed immagini descrive le sensazioni di chi si trova al cospetto di una città paradossale ed estrema, maltrattata e derubata, morta e risorta più volte, teatrale e passionale, meravigliosa e geniale, ma soprattutto colta e magnetica tanto che “ci sono posti in cui ti basta esserci stato una volta sola…e poi c’è Napoli”.
La voce narrante di Turturro fa da filo conduttore in un viaggio tra leggenda e tradizione, portando lo spettatore tra le strade della Napoli contemporanea evidenziando attraverso immagini di repertorio il passato tormentato vissuto dal popolo napoletano tra guerre ed epidemie, eruzioni vulcaniche e terremoti.
Se la città è protagonista principale di “Passione”, la magia e le emozioni sprigionate dalle canzoni scelte dal regista per la messinscena di tale avventura sono l’ideale rappresentazione delle varie sfaccettature di Napoli; la scelta di collocare ogni esibizione in un luogo diverso ed emblematico della città acuisce l’intensità delle canzoni rendendole a dir poco pedagogiche.
Da più parti si sono evidenziate le lacune e le dimenticanze nella selezione musicale fatta per questo film: a mio parere, dando per scontata l’insindacabile valutazione personale dell’autore dell’opera e la competenza ed enciclopedica conoscenza della canzone napoletana di Federico Vacalebre, è più importante sottolineare le interpretazioni che si possono vedere e sentire in “Passione”.
Prologo ed epilogo di questo film sono da brividi con l’immensa Mina che canta “Carmela”  sulle note del piano di Danilo Rea in apertura e con l’inno malinconico dedicato da Pino Daniele alla sua città, “Napule è”, ad anticipare i titoli di coda.
La teatralità di alcune performances attribuisce alle canzoni napoletane una forza che non può essere limitata per rendere appieno il significato dei testi: per questo interpretazioni magistrali come quella di Peppe Barra in “Tammurriata Nera” (accompagnato da M’Barka Ben Taleb e Max Casella) mostrano l’arte del recitare una canzone non semplicemente del cantarla, tanto che lo stesso attore-cantante durante l’esecuzione di “Don Raffaè” di De Andrè viene catapultato nella realtà narrata nel testo.
Nel solco tracciato dal maestro Barra si collocano gli omaggi a Carosone di Gennaro Cosmo Parlato con “Maruzzella” e la spassosa versione di “Caravan Petrol”, curata da Enzo Avitabile, cantata da Fiorello con la complicità coreografica di John Turturro e dell’attore italo-americano Max Casella; poi gli Spakka-Neapolis 55 con “Vesuvio”, Pietra Montecorvino con “Dove sta Zazà” (insieme a Max Casella) e “Comme facette mammeta” (versione quasi tarantolata con giovani danzatrici a scandire il tempo), la “Malafemmena” di Totò sceneggiata più che interpretata da Lina Sastri e Massimo Ranieri.
Tra le eccellenze interpretative del film va segnalata una delle canzoni più belle della storia recente della musica napoletana, “Nun te scurdà”, in una nuova versione riarrangiata dagli Almamegretta che unisce le straordinarie voci di Raiz e Pietra Montecorvino arricchendola con l’interpretazione sensuale di M’Barka Ben Taleb che canta in arabo la strofa conclusiva. La cantante tunisina è protagonista anche di un toccante salto temporale sulla canzone che più di tutte le altre ha reso famosa Napoli nel mondo: “‘O sole mio” passa dalla voce di Sergio Bruni e Massimo Ranieri (in immagini d’epoca) al canto ipnotico di M’Barka che nella sua lingua dimostra l’universalità di questo capolavoro.
Atmosfere morbide ed eteree vengono regalate dalla bellissima versione di “Era de maggio” che gli Avion Travel interpretano con la cantante portoghese Misia, la cui pronuncia napoletana viene messa alla prova anche in “Indifferentemente” trovandola pronta soprattutto nel trasmettere la giusta intensità nell’esecuzione alla stregua di un fado.
Intensità che non manca a Fiorenza Calogero, Daniela Fiorentino e Lorena Tamaggio in un’interpretazione quasi mistica oltre che vocalmente ineccepibile del “Canto delle lavandaie del Vomero”.
Le immagini di repertorio fornite dagli archivi dell’Istituto Luce e della Rai hanno permesso a John Turturro di ampliare il suo viaggio toccando gli eventi che hanno segnato negli anni il popolo napoletano, ma anche di scovare esibizioni come quella di Angela Luce nell’interpretazione di “Bammenella” di Raffaele Viviani.
I reperti storici presenti in “Passione” non si limitano solo alle immagini di repertorio ma anche a registrazioni audio come quelle di Fernando De Lucia con “Marchiare” e di Enrico Caruso con “‘A vucchella”, ed è istruttivo nel film ascoltare a riguardo i racconti dei fratelli Esposito, pionieri nella diffusione della musica napoletana con la loro Phonotype Record.
Ad unire leggenda e tradizione con racconti e musica ci pensano due musicisti napoletani, gli straordinari Enzo Avitabile e James Senese, che passano dalla familiarità con cui viene trattato San Gennaro dai partenopei alle storie di vita vissuta di un napoletano dalla pelle nera cresciuto senza padre in un basso sognando il jazz: i loro sax e le loro voci regalano “Faccia gialla”, cantata da Avitabile con i Bottari, e “Sangh’è” e “Passione”, nell’interpretazione di quello che da piccolo veniva chiamato Jamesiello.
L’avventura musicale di Turturro non esclude cantanti emergenti o conosciuti esclusivamente in ambito cittadino, così durante il film si possono ascoltare Valentina in “I te vurria vasà”  e Riccardo Ciccarelli in “Dicitencello vuje”; ma è nelle canzoni che trova il suo percorso ideale, nella capacità che “Passione” ha avuto nel contestualizzarle innalzando in tal modo esecuzione e luogo in cui si svolge, e dimostrazione regina della riuscita di questo lavoro è “Catarì” cantata da Fausto Cigliano al cospetto delle Sette Opere della Misericordia di Caravaggio.
Il rischio che il film risulti una dichiarazione d’amore appiattita sull’oleografia convenzionale che si attribuisce a Napoli viene scongiurato dall’abilità registica di Turturro e dalla volontà di non mostrare l’immagine da cartolina che vorrebbe apparentemente nascondere i lati oscuri e le problematiche della città.

 (articolo pubblicato su NAPOLI.COM)





Pasquale De Renzis

mercoledì 21 dicembre 2011

MIDNIGHT IN PARIS – l’incantevole omaggio di Woody Allen alla Ville Lumiere


L’esplorazione europea di Woody Allen ha regalato negli ultimi dieci anni film di ottimo valore e l’uno completamente diverso dall’altro, portando al genio newyorkese nuova linfa utile anche per tornare al suo cinema classico rappresentato da Basta che funzioni. Dopo aver fotografato Londra e Barcellona attraverso noir, thriller psicologico, dramma sentimentale e comicità pura il regista “zelig” è giunto a Parigi per girare un vero e proprio atto d’amore alla Ville Lumiere. Midnight in Paris ha la magia del cinema e il fascino della scrittura spumeggiante di Woody Allen: il prologo che mostra le immagini delle incantevoli strade e piazze parigine ricorda l’introduzione di Manhattan , e la narrazione che parte spedita sul battibecco tra la coppia protagonista che farà da leit-motiv della pellicola non perde mai di intensità attraendo sempre più per l’incredibilità della storia. Una storia romantica-comica-malinconica, la vicenda di un uomo che si appresta a sposare la sua fidanzata ma una volta a Parigi capisce di essere insoddisfatto della vita vissuta fino ad allora, e l’amore per la città in cui si trova unita all’insofferenza per la propria condizione lo portano a vivere ad ogni mezzanotte l’illusione di poter essere catapultato nel periodo storico che ha sempre immaginato ideale per sé stesso, gli anni ’20. Lo sceneggiatore deluso che sogna di diventare scrittore vive le sue notti parigine al fianco di Francis Scott Fitzgerald, Hemingway, Cole Porter, Pablo Picasso, Gertrude Stein, Luis Bunuel, Salvador Dalì e grazie al viaggio nell’immaginifico passato troverà coraggio e consapevolezza per decidere del proprio futuro.
I tratti onirici di Midnight in Paris hanno il marchio del realismo sarcastico di Allen che non scinde mai la sua direzione tecnica dalla pungente sceneggiatura: altro pregio innegabile del regista è la capacità di esaltare attori che non sempre avevano dimostrato in carriera potenzialità così sorprendenti come nei suoi film, e stavolta tocca a Owen Wilson giovarsi della regia-scrittura di Woody Allen, vestendo in modo eccellente i panni del protagonista e tenendo le redini dell’intera storia essendo sempre in scena e con tratti e tempi recitativi lontani anni luce dalle performances all’ombra di Ben Stiller o nei ripetitivi e scialbi blockbuster americani. Ad accompagnare Wilson un cast importante (Kathy Bates, Adrien Brody, Marion Cotillard, Michael Sheen, Rachel McAdams, per la prima volta sullo schermo la premiere dame Carla Bruni) all’altezza di una commedia al di sopra della media della maggior parte dei prodotti della cinematografia contemporanea…risultato quasi sempre scontato quando si parla di un film di Woody Allen.

(articolo pubblicato su NAPOLI.COM e L'INDIEPENDENTE WEBZINE)




Pasquale De Renzis

PINA – l’affascinante film di Wenders sul teatro-danza di Pina Bausch…in un’inutile 3D


Se uno dei migliori registi della cinematografia europea decide di girare un film in 3D viene il dubbio che forse questa sia la tecnologia imprescindibile per il futuro della Settima Arte. Dopo aver visto Pina di Wim Wenders ci si rende conto che probabilmente è stato più un vezzo, uno sfizio che il regista si è tolto provando le riprese tridimensionali che sinceramente erano evitabili per questa sua opera. L’affascinante film documentario sulla straordinaria coreografa tedesca scomparsa nel 2009 è una gioia per gli occhi, anche per i non appassionati di danza: il regista ci guida in un viaggio sensuale e di grande impatto visivo, seguendo gli artisti della leggendaria compagnia Tanztheater Wuppertal sulla scena e fuori, nella città di Wuppertal, il luogo che per 35 anni è stato la casa e il cuore della creatività di Pina Bausch. La bellezza delle immagini delle coreografie che Pina aveva scelto con Wenders per la rappresentazione su grande schermo, cattura lo sguardo e l’attenzione dello spettatore avvolto nei movimenti del teatro-danza, negli spazi immensi riempiti dalle figure dei ballerini. Secondo Wenders il 3D gli è servito per rendere appieno la plasticità delle coreografie e le emozioni del teatro-danza di Pina Bausch; ma in realtà non è certo tale tecnologia che può esaltare o meno l’eccezionalità di un corpo in movimento, anzi può risultare deleteria nel caso di una danza prolungata, di una coreografia caratterizzata dall’ambiente circostante, e lo spettatore perde molti degli elementi scenografici venendo travolto esclusivamente dal soggetto ripreso che a lungo andare in 3D stanca e disturba.

(articolo pubblicato sul numero di dicembre del periodico il Mediterraneo)




Paco De Renzis

giovedì 15 dicembre 2011

ALMANYA – un piccolo grande film sull’importanza della società multietnica


Le sorelle Yasemin e Nesrin Samdereli,due giovani ragazze tedesche di origine turca, hanno scritto la sceneggiatura di una delle pellicole più interessanti del 2011. Almanya, diretto dalla stessa Yasemin, è una commedia intelligente ed esilarante che tratta in maniera originale un tema universale e delicato come l’immigrazione, in modo specifico la multietnicità della società moderna. L’idea si è sviluppata nelle due ragazze accorgendosi che i racconti sul passato della loro famiglia immigrata in Germania interessavano e facevano presa su qualsiasi tipo di persona. Così, dalla realtà, è arrivata l’ispirazione per narrare la storia di Huseyin Yilmaz, patriarca di una famiglia turca emigrata negli anni ’60 in terra teutonica, nel periodo in cui  l’Almanya, come si dice in lingua turca, ricercava quanta più manodopera possibile tanto da non bastargli solo quella degli immigrati italiani e spagnoli. Dopo una vita di sacrifici e lavoro lontano dalla patria, Huseyin finalmente realizza il sogno di comprare una casa nel paese dove è nato e l’intenzione è quella di farsi accompagnare in Anatolia da figli e nipoti per sistemare la dimora. Nonostante lo scetticismo e la scarsa volontà, l’intera famiglia si mette in viaggio mescolando alle avventure che vive all’arrivo nella terra d’origine, i ricordi tragicomici dei primi anni in Germania, con le difficoltà e le incredibili differenze culturali che avevano fatto pensare di essere capitati in un posto talmente assurdo in cui sarebbe stato impossibile vivere. Tra i segreti celati per anni e quelli recenti difficili da confessare, il tragitto si rivelerà una sfida per l’unione della famiglia; ma soprattutto una rivelazione di come le proprie origini siano radici da proteggere e conservare per tramandare la loro importanza di generazione in generazione, perché “siamo la somma di tutto quello che è successo prima di noi, di tutto quello che è accaduto davanti ai nostri occhi, di tutto quello che ci è stato fatto; siamo ogni persona, ogni cosa la cui esistenza ci abbia influenzato o che la nostra esistenza abbia influenzato, siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti”.
Le situazioni divertenti del film sono innumerevoli, e quasi nessuna è inserita in fase di sceneggiatura per caso o per strappare la risata facile: il tema dell’integrazione viene affrontato non in maniera ipocrita e certo non dando per semplice e scontato l’approccio tra due culture differenti. La parabola del milionesimo e uno lavoratore immigrato in Germania ha il sapore delicato delle favole raccontate ai bambini e allo stesso tempo l’intensità di una storia condivisa da milioni di esseri umani che hanno dovuto cambiare stile di vita oltre che paese ritrovandosi molte volte alle prese con diffidenza e intolleranza. La storia di nonno Huseyin narrata al nipotino per fargli capire le origini della famiglia, in seguito alla sua legittima domanda “ma sono turco o tedesco? Non posso essere tutti e due, devo scegliere in che squadra giocare”, è un astuto espediente per rendere possibile cinematograficamente il doppio profilo temporale del film evitando di appesantire l’irruzione dei flashback come capita fin troppo spesso nelle pellicole moderne. L’impronta sociale di Almanya, di estrema attualità, è rappresentata dalle tre generazioni della famiglia turca protagonista della storia, che vive in Germania ormai integrata al punto che molti dei componenti sono tedeschi di nascita e, a parte gli anziani genitori, gli altri sono cresciuti fin dalla tenera età in Almanya tanto che il viaggio in Turchia viene vissuto inizialmente da loro con diffidenza e con la base pregiudiziale che hanno acquisito nella patria di adozione nonostante gli insegnamenti paterni.
Alcune immagini da cartolina dell’Anatolia incorniciano momenti di bellissimo cinema regalati dall’opera prima di Yasemin Samdereli, su tutti il poetico funerale di ispirazione felliniana che ricorda una scena significativa di Big Fish di Tim Burton. La frase dello scrittore Max Frisch “chiedevamo dei lavoratori e sono arrivate delle persone” che si legge prima dei titoli di coda è l’emblema di un film che considero rappresentativo dell’Europa moderna, della speranza che divenga finalmente una società consapevolmente, pacificamente e inevitabilmente multietnica.

(articolo pubblicato su L'INDIEPENDENTE WEBZINE)
Paco De Renzis


venerdì 9 dicembre 2011

NATALE AL CINEMA Non solo cinepanettoni…per fortuna

 
 

Il periodo più florido per i botteghini cinematografici arriva senz’altro con le feste natalizie. Storicamente la distribuzione del mese di dicembre viene condizionata da film di genere che monopolizzano il mercato occupando oltre l’80% delle sale. Quest’anno la tradizione verrà rispettata grazie al classico cinepanettone della scuderia De Laurentiis che è tornato a girare in Italia, e precisamente in quella Cortina che vide la nascita nel 1983 del filone Vacanze di Natale. Concorrenza spietata per gli incassi sarà quella con l’ennesimo tentativo di Pieraccioni di dare una scossa alla propria cinematografia ripetitiva e insipida dell’ultimo decennio: il titolo Finalmente la felicità potrebbe essere una dichiarazione di intenti, chissà. Gran Bretagna e USA si sfideranno a colpi di film d’animazione con la favola moderna Il figlio di Babbo Natale e il classico Il gatto con gli stivali, ovviamente in 3D. A proposito di 3D, esce in sala a ridosso delle feste anche il terzo capitolo della trilogia d’animazione ecologista di Luc Besson, Arthur:la guerra dei 2 mondi. Non poteva mancare il pacco natalizio a stelle e strisce con la commedia sentimentale Capodanno a New York confezionata da mister pretty woman Garry Marshall con il supporto recitativo di De Niro. Sempre da Hollywood arriva Cambio vita scritto dagli sceneggiatori dell’esilarante Una notte da leoni. Curiosità e aspettative per la seconda avventura di Sherlock Holmes (Gioco di ombre il titolo) firmata Guy Ritchie con Robert Downey jr. e Jude Law. Chissà quanto spazio troveranno in sala i film francesi Emotivi anonimi di Jean Pierre Ameris e Le nevi del Kilimangiaro di Robert Guediguian, e rischia l’invisibilità anche il ben più famoso Jean Jacques Annaud che si ritrova ad uscire con Il principe del deserto il giorno dell’antivigilia. Se l’horror italiano Bloodline di Tagliavini e la commedia Napoletans di Russo dovranno lottare non poco per conquistare qualche sala, Lo schiaccianoci 3D di Konchalovsky sarà frutto della caccia al tesoro di qualche cinefilo magari appena uscito sconfitto dalla ricerca di un cinema che proiettasse il Faust di Sokurov.   
Tra cinepanettoni, cartoni animati e 3D scommetto che il mese di dicembre vedrà come probabile campione d’incassi Il giorno in più di Massimo Venier a cui basterà portare al cinema anche solo una parte dei numerosi adepti del best seller omonimo di Fabio Volo da cui è tratto per sbancare i botteghini. Anche se gli appassionati della Settima Arte non amano particolarmente l’ultimo mese dell’anno perché le sale vengono prese d’assalto e lo spettatore stagionale diventa ancor più molesto e indisciplinato del solito, ci sono 4 film che vale la pena di andare a vedere sfidando le resse natalizie: in ordine di uscita arriveranno sul grande schermo Midnight in Paris di Woody Allen, ennesima divagazione europea del genio newyorkese; L’artista di Michel Hazanavicius, opera muta e in bianco e nero che ha stregato il Festival di Cannes; Le idi di Marzo prodotto, diretto e interpretato da George Clooney e che a Venezia qualcuno ha considerato ancora meglio dello straordinario Good Night&Good Luck; e ad inaugurare il 2012 cinematografico subito dopo capodanno arriverà in sala uno dei lavori più attesi degli ultimi anni, J.Edgar il film di Clint Eastwood su colui che per cinquant’anni è stato a capo dell’FBI lasciando un’oscura e controversa impronta nella storia degli USA, e nei panni di Hoover c’è il sempre più sorprendente Leonardo Di Caprio.       

Paco De Renzis

lunedì 5 dicembre 2011

NOI CREDEVAMO-Le origini della “disunità”

Le origini della “disunità” dell’Italia contemporanea nel Risorgimento raccontato da Martone

L’importanza di opere come “Noi Credevamo” di Mario Martone sta nel far riflettere sulle proprie origini mettendole a confronto con l’attualità: alla vigilia dei festeggiamenti per i 150 anni dall’Unità d’Italia arriva in sala un film che chiarisce situazioni che la storiografia più acclamata ha preferito semplicemente accennare se non addirittura omettere in molti casi.
Partendo dalla storia di tre ragazzi cilentani che vedendo uccidere dei rivoluzionari repubblicani dall’esercito borbonico decidono di affiliarsi alla Giovine Italia mazziniana, Martone attraversa con il suo racconto e le sue immagini quasi un secolo di storia italiana: il Risorgimento di “Noi Credevamo” sottolinea le incredibili differenze tra repubblicani e monarchici, tra chi da subito vedeva, con la cacciata dei borboni dal meridione, un annessione del sud al regno savoiardo e chi invece era spinto da ideali democratici a combattere per spodestare una monarchia di invasori così da unificare l’intero popolo italiano sotto un’unica bandiera.
L’opera è composta da quattro parti che potrebbero tranquillamente avere vita indipendente, quattro film intensi che mostrano l’evoluzione dei protagonisti di pari passo con l’intensificarsi delle discrepanze tra le fazioni che si preparano ad unificare l’Italia: tra congiure e attentati, riunioni e proclami si assiste al passaggio dalla teoria rivoluzionaria all’azione pratica che costa prigione e torture, tradimenti e numerose morti.
Il frammento finale di “Noi Credevamo” è il più devastante, l’Italia pare ormai unita con la graduale conquista dei territori meridionali eppure l’esercito dei Savoia trucida migliaia di contadini, di lavoratori, di persone indifese accusate di essere briganti: arrivano i garibaldini e molti soldati dell’esercito regolare disertano e si uniscono alle camice rosse perché è il momento di fare la vera Italia repubblicana, di conquistare Roma e di liberarsi dopo l’autorità papale anche di quella monarchica; ma le truppe piemontesi sparano anche su di loro, li arrestano e giustiziano senza appello i disertori. L’Italia è stata fatta ma a discapito e col sangue degli italiani e nel Parlamento del Nord da alcuni di quei personaggi che avevano appoggiato la rivoluzione repubblicana vengono pronunciate parole di condanna verso Mazzini e la sua idea di unificazione, tanto da renderlo esule in patria.
Per preparare questo film Mario Martone ha lavorato sette anni, tra ricerche storiche, sceneggiature scritte e riscritte, fino a quella definitiva con Giancarlo De Cataldo ispirandosi oltre a fatti realmente accaduti anche al romanzo omonimo di Anna Banti.
L’aiuto regista Raffaele Di Florio ha rivelato che ci sono voluti tre anni per scegliere il cast, e una delle forze maggiori di “Noi Credevamo” sta proprio negli interpreti che elevano la caratura di ogni singola scena, anche perché a parte i protagonisti, eccezionali Luigi Lo Cascio e Valerio Binasco, si è al cospetto di un gruppo d’attori che sorprendono come Francesca Inaudi, Michele Riondino, Ivan Franek, Guido Caprino, Stefano Cassetti, Franco Ravera, Edoardo Natoli, Luigi Pisani, Andrea Bosca, gli esperti Luca Barbareschi e Luca Zingaretti, ma soprattutto il gruppo di affezionati del regista Mario Martone, quello che rende film come “Morte di un matematico napoletano”, “Teatro di guerra”, cosi come quest’ultimo, risultati di un affiatamento e di un progetto in cui l’alchimia e la fiducia verso le persone con cui si lavora è totale: se Toni Servillo nel suo Mazzini è addirittura mastodontico, vengono esaltati ripagando con maestria interpreti come Renato Carpentieri, Andrea Renzi, Enzo Salomone, Antonio Pennarella, Roberto De Francesco, Salvatore Cantalupo, Anna Bonaiuto, Marco Mario De Notariis. Emblematico il racconto di alcuni di questi attori che per confermare la loro assoluta fiducia nell’opera di Martone hanno detto di aver atteso in certi casi anche tre giorni prima di girare una scena, in situazioni ambientali non favorevoli come nelle riprese per le immagini della prigionia di Montefusco dei rivoluzionari, che sono avvenute in realtà nel paese pugliese di Bovino in due settimane di pseudo - clausura tra set e albergo distanti tra loro quaranta chilometri.
A differenza di un capolavoro della cinematografia italiana che si occupa dello stesso periodo storico, “Il Gattopardo” di Visconti, Mario Martone ha scelto di evitare l’estetismo, di non eccedere in manierismi, anzi di sopprimerli dalla sua regia non eliminando nemmeno quei momenti di imperfezione delle riprese rendendoli anzi naturali, mostrando dissonanze storiche come uno degli interpreti con un orologio al quarzo, indugiando su un’inquadratura che dall’interno di un rifugio si sposta con il protagonista verso l’esterno rivelando che altro non è che la carcassa delle fondamenta di un edificio moderno abbandonato, evitando eccessivi movimenti di macchina; il regista ha voluto dimostrare che in Italia è possibile fare un film storico, in costume, un’opera corale affidandosi ad un mondo cinematografico, lavoratori e attori, che nell’ultimo periodo sta subendo un attacco frontale da parte delle forze governative così come tutto l’universo culturale del paese, con tagli impressionanti agli investimenti così come al FUS (fondo unico per lo spettacolo).
Un film di tale imponenza e rilevanza culturale va elogiato anche perché l’Italia a differenza di altri paesi, ad esempio America e Francia, ha quasi sempre evitato di raccontare gli eventi storici che hanno portato alla propria nascita, come non si volesse rischiare di rompere una pacificazione che in realtà non c’è mai stata se una forza politica secessionista come la Lega Nord può essere parte integrante di un governo che guida la nazione: “Noi Credevamo” è un’opera didattica che andrebbe diffusa il più possibile, ed invece nel paese dell’assurdo e del paradosso quale è divenuto l’Italia è stato distribuito solo in trenta copie, in nessuno dei multicinema con dieci e più sale si può vedere il film di Martone, tra Puglia e Campania sono solo quattro i cinema che lo proiettano, e a produrlo è stata la Rai con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ma stranamente la televisione di Stato non si è preoccupata minimamente della visibilità dell’opera e ha commentato la scarsa distribuzione dicendo che non ci sono cinema di proprietà della Rai e quindi la distribuzione non è un loro problema, quasi l’uscita in sala sia un passaggio fastidioso per un progetto nato ad uso esclusivo del mezzo televisivo per idea di qualcuno.
Il film dura circa 200 minuti ed è triste pensare che a prescindere dall’importanza del progetto e dalla qualità dell’opera le case di distribuzione snobbino e sottovalutino prodotti del genere solo per la loro durata, sempre che non si tratti di pellicole tridimensionali alla Avatar.



Paco De Renzis


sabato 3 dicembre 2011

SPORCHI DA MORIRE – il film-documentario sul “pericolo” inceneritori


Il regista indipendente Marco Carlucci ha girato un film-documentario che narra il viaggio dell’attore-scrittore Carlo Martigli nel mondo delle nano particelle e delle polveri sottili. Attraverso un montaggio di immagini di video presenti in internet che si alternano a veri e propri reportage esclusivi realizzati in varie parti del mondo, Sporchi da morire è un viaggio virtuale che diventa fin troppo reale al cospetto di un problema drammatico come quello dell’inquinamento causato dagli inceneritori; problema devastante per il presente così come per le future generazioni come spiega nel film il professor Stefano Montanari, scopritore delle nanoparticelle che con sua moglie, la dottoressa Antonietta Gatti, si batte da anni contro la costruzione e l’uso degli inceneritori. Ad accompagnarli in questa loro battaglia numerosi medici non solo italiani che continuano a sfornare dati e ad impegnarsi in studi e ricerche, riunendosi in comitati che contano decine di migliaia di nominativi; ma dei loro studi nessuno ne parla, e Sporchi da morire dimostra come in Italia personaggi politici propongano al paese questi impianti come unica possibile soluzione allo smaltimento dei rifiuti, fiancheggiati da grandi nomi della scienza così come da noti volti della tv che assicurano che gli inceneritori non fanno male. Il film-documentario nasce principalmente per porre alcune domande: è vero che gli inceneritori fanno male? – perché in Italia si continuano a costruire questi impianti mentre nel resto del mondo si stanno smantellando? – quali sono i rischi concreti per la salute? – quali sono i danni provocati da micro e nanoparticelle? – quali sono le possibili alternative? Le istituzioni di un paese civile dovrebbero essere capaci di rispondere a queste domande assumendosi le responsabilità di ciò che fanno: la visione di Sporchi da morire conferma i dubbi sulle “non risposte” date e sulle decisioni che in questi anni gli amministratori pubblici hanno preso eludendo, forse ignorando, le possibili conseguenze degli inceneritori sulla salute pubblica.