lunedì 30 aprile 2012

Match Monicelli-Moretti 2a parte.mpg

Match Monicelli-Moretti 1ma parte.mpg

NUOVO CINEMA POPULISTA


fonte: Corriere.it
CONTRO LA DITTATURA DEL CONSENSO SERVE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE
la degenerazione dei film campioni d'incassi è anche frutto di una critica (anti)snobistica

Francis Ford Coppola l’ha spiegato con lucidità: la vera svolta epocale per il cinema degli ultimi decenni non è stata né la rivoluzione digitale né tanto meno il 3D, ma «il giorno in cui invece di chiederci se una film era bello, abbiamo cominciato a chiederci quanto aveva incassato». L’ossessione del successo, non come legittima aspirazione al maggior numero possibile di spettatori ma come scalata (la più rapida possibile) delle classifiche. Con tutto il corollario di «droghe» e «stimolanti» necessari ad arrivare in vetta subito: strategie di marketing invece del bocca- a-bocca, occupazione orizzontale dei cinema invece della penetrazione in profondità («quante copie?» è la domanda di rito ad ogni nuova uscita), offerta multipla (dai cibi alle bevande ai gadget. E non solo) invece dell’interesse per il singolo prodotto.
È il mercato, bellezza!, hanno detto in molti, senza accorgersi che in questo modo si cambiavano non solo i modi del consumo ma si stravolgeva anche la natura stessa del prodotto, pensato soprattutto per una fruizione immediata, rapida e possibilmente indolore visto che il weekend successivo bisogna essere pronti (e affamati) per una nuova «scorpacciata» di copie e di sollecitazioni.
Poco male, hanno sentenziato i soliti convinti «modernisti»: il cinema è industria ed è giusto che si evolva con il tempo, lasciandosi alle spalle linguaggi obsoleti e non al passo coi tempi. E se ne facciano una ragione i soliti snob della cultura e dell’impegno, preoccupati perché dietro i numeri poteva nascondersi qualche cosa di più preoccupante. Come il fatto che dei 363 film usciti nel 2011 in Italia, i primi 12 hanno incassato il 30 per cento del mercato, i primi 28 il 50, i primi 180 il 95 per cento. E tra gli altri 183 che si sono dovuti accontentate del 5 per cento del mercato (cioè meno di 5 milioni di euro) ci sono film che hanno vinto ai festival di Venezia (Faust), di Berlino (Una separazione) o di Roma (Kill Me Please), che sono stati applauditi a Cannes (Le nevi del Kilimangiaro) o al Sundance (Un gelido inverno). E che all’estero hanno ottenuto incassi molto, ma molto più interessanti.
Pazienza, la cultura non serve a stabilire nessuno spread (escluso quello del livello di civiltà, ma le Borse se ne disinteressano. E i bocconiani anche), se non fosse che questa specie di sotterranea rivoluzione cinematografica sta trasformando — insieme ad altri fattori, ovviamente — non solo i gusti del consumo ma anche i modi del pensare. E dell’agire. È come quando insegnano a scuola l’origine dei fiumi: un piccolo rivolo si unisce casualmente ad altri, nati per altre ragioni, ma tutti attratti da una certa pendenza del terreno, tutti incanalati da una certa conformazione orografica. E alla fine ti trovi un fiume che nessuno riesce più ad arginare, grosso e impetuoso. Dove puoi solo lasciarti andare alla forza delle corrente.
Quel fiume si chiama populismo.
Secondo molti politologi è la malattia del Terzo Millennio, la reazione nemmeno tanto sorprendente alla degenerazione della politica, della finanza, della corruzione. Il vero cancro della democrazia. Ma i suoi effetti non si curano solo con i governi tecnici o le leggi anticorruzione. Serve anche una specie di nuova «rivoluzione» culturale, capace di ristabilire una corretta scala di valori e di rimettere coi piedi per terra quello che sembra ondeggiare ben più di 3 metri sopra il cielo. Anche a partire dal cinema.
L’accostamento non stupisca. Il populismo non è nato nei libri di politica ma nei dibattiti letterari. Era il 27 agosto 1929 quando Léon Lemonnier pubblicava su «L’Oeuvre» Un manifeste littéraire: le roman populiste (Un manifesto letterario: il romanzo populista) dove difendeva un nuovo modo di scrivere, attento ai personaggi del popolo, più attratto da storie urbane che ambientate nelle campagne, anti-modernista e soprattutto capace di resistere al fascino del romanzo borghese (con le sue inquietudini e le sue debolezze) per esaltare le vite «povere e mediocri». La storia letteraria si è incaricata di rimettere le cose a posto, ridimensionando il valore di scrittori come Henry Poulaille, André Thérive e lo stesso Lemonnier (forse siamo disposti a salvare solo Eugène Dabit e il suo Hotel du Nord, ma per via del film con Annabella, Aumont, Arletty e Jouvet, Albergo Nord), ma quel modo di guardare intorno a noi, mescolando pietismo e sensi di colpa (che poi sono i prodromi del politicamente corretto), compiacimento miserabilista e (finto) antisnobismo ha finito per rispuntare, favorito da un più generale disinteresse, per non dire disprezzo, verso i valori che fino a ieri andavano per la maggiore. Anche nella cultura. Anche nel cinema.
L’egemonia stracultista
Scriveva nel 1999 Marco Giusti nell’introduzione del suo Dizionario dei film italiani stracult: «Vedevo di tutto e contemporaneamente. Mischiavo Fuller con Baldanello, Antonioni con Bergonzelli. Nello stesso giorno vidi Il laureatoQualcuno verrà e Pecos è qui, prega o muori. Snob? Non credo. Mi piaceva vedere i film, fare lo spettatore». Difficile dargli torto: se uno spettatore non è onnivoro che spettatore è? Ma quando nel 2004 la Mostra del cinema di Venezia (direttore Marco Müller) decise di dedicare la propria retrospettiva a una sedicente «Storia segreta del cinema italiano — The Kings of the B’s», con titoli come W la foca e Cannibal Holocaust, decretando «la rivincita di un cinema, oggi quasi completamente scomparso, su un sistema produttivo che lo ha distrutto» (sempre Giusti scripsit) ecco che lo snobismo dello spettatore bulimico si trasforma in qualcosa di ben più ambiguo. E pericoloso. Ribaltando le gerarchie (e con il solito vizio italiano di salire sempre sul carro dell’ultimo vincitore) si finisce per imporre una nuova scala di valori, dove gusto goliardico ed elogio del disimpegno, piacere dell’oltraggio e rivalutazione del rimosso, voglia di provocazione e spregio della tradizione finiscono per mescolarsi in un galateo dell’antigalateo. In un nuovo (e più subdolo) populismo cinefilo.

Se dovessi indicare un campione nazionale per questo nuovo «filone», penserei immediatamente a I soliti idioti e al loro gusto finto libertario di fustigatori dei vizi nazionali, dove lo specchio della realtà lascia il posto a una deformazione solo compiaciuta (e solo funzionale al meccanismo della risata). Ma mi vengono in mente, tanto per restare alle uscite più recenti, anche Benvenuti al Nord o Come è bello far l’amore. Il primo per aver trasformato il meccanismo di bonaria critica antirazzista di Benvenuti al Sud (con il suo messaggio di fratellanza interregionale) in un campionario di luoghi comuni acritici (dall’ossessione lavorativa del Nord all’efficienza «marchionnesca») che alla fine vengono accettati ed esaltati; il secondo per aver banalizzato — e sfruttato — il tema dell’erotismo familiare in nome di una finta e superficialissima liberazione sessuale piccoloborghese (la trasgressione della dark room!). Stendendo un pietoso velo sull’inutile tirata antintellettualistica con cui si apre il film e di cui fanno le spese gli incolpevoli fratelli Lumière e qualche bravo regista di casa nostra.
Senza dimenticare la pretesa filiazione di questo cinema dalla commedia all’italiana, parafulmine spesso tirato in ballo — populisticamente — da chi vuole inventare quarti di nobiltà ai film comici di oggi, cercando una spiegazione intellettualistica (o giornalistica, che poi sono termini che hanno finito per essere considerati sinonimi) al nostro bisogno di ridere. Si dimentica che spesso le battute migliori sono nate anche dall’usare un linguaggio «basso» (come una parolaccia) per concludere un argomento «alto» (o che si vorrebbe tale). Ma se rivediamo una qualsiasi delle vere commedie all’italiana (quelle prodotte grossomodo tra il 1958 e la fine degli anni Sessanta) balza all’occhio che la comicità non si limitava ai «vaffa…» o ai «dai c…!» (peraltro rarissimi in quei film), ma era centrata sulla capacità di prendere le distanze da quello che si raccontava, mettendo alla berlina con cattiveria (e molta, anche) i vizi e i difetti portati in scena. Si rideva, del padre che insegna al figlio a essere disonesto (come accade nei Mostri), ma poi il contrappasso arrivava. Ci si lustrava gli occhi di fronte alla Loren in guêpière (inIeri, oggi, domani), ma gli ululati di Mastroianni ci parlavano anche del maschio italiano, bamboccione e succube del padre. D’accordo ridendo, ma anche castigat mores.
Sarebbe troppo facile però buttare tutte le colpe su questo o quel film, rei di cavalcare un disimpegno fatto quasi esclusivamente di luoghi comuni. O sulla tendenza, che si vede soprattutto nelle commedie, di cancellare la responsabilità dell’io a favore di un moltiplicarsi indifferenziato di soggetti narrativi che finiscono per cancellare psicologie e moralità in funzione del puro e semplice meccanismo comico: oggi è la gag o la battuta che giustifica l’esistenza sullo schermo di un personaggio e non viceversa, come ci avevano insegnato la commedia all’italiana e i suoi protagonisti a tutto tondo.
La sindrome di Totò
No, spesso la vera molla di una degenerazione di tipo populista viene proprio da chi dovrebbe cercare di arginare questa tendenza. Dai giornalisti che si inventano dibattiti su film che non lo meritano, gratificando di un valore (e di un contenuto) opere che invece ne sono prive e finendo, per puro spirito di polemica, a trovare qualità dove non ce ne sono. Dai critici che per paura di essere scavalcati non si sa dove, a destra o a sinistra, si attrezzano per ogni possibile rivalutazione a futura memoria di fronte a film minimi o minimissimi, timorosi di essere inseguiti dalla «vendetta di Totò», il campione indiscusso dei geni rivalutati post mortem (salvo scoprire che lui vivo e vegeto c’erano stati fior di ammiratori pronti a spendere lunghi e motivati elogi al «principe della risata» da Bontempelli a Soldati, da Benayoun a Pasolini, da Fofi a Spinazzola. Ma oramai quello del nemo propheta in vita è un luogo comune che va per la maggiore. E che fa comodo — populisticamente — a tutti).

Senza dimenticare poi le responsabilità dei direttori di festival e degli organizzatori culturali che alla ricerca disperata di un consenso di massa, disposti a giocare con le parole e i concetti pur di giustificare tutto e il contrario di tutto, la cultura e l’anticultura, il nuovo e il vecchio, il popolare e il raffinato, il masscult e il midcult e compagnia cantante. Tutti insieme alla ricerca di un consenso che non disturbi nessuno e gratifichi tutti. Che poi è la vera essenza del populismo.
Paolo Mereghetti

venerdì 27 aprile 2012

TO ROME WITH LOVE - il cinema come marchetta



Peccato che il film più brutto del cine-tour europeo fin qui effettuato da Woody Allen sia quello girato in Italia. Anzi, non chiamatelo film; per rispetto di uno dei più grandi geni della cinematografia moderna evitiamo di considerare To Rome with love un’opera cinematografica…è uno spot, una vera e propria marchetta commissionata dalla Medusa al regista newyorkese. Qualcuno erroneamente l’ha definita una cartolina, ma in quel caso il titolo sarebbe dovuto essere “from Rome with love”, ma a parte la inutile precisazione semantica credo esistano poche cartoline che mostrano marchi pubblicitari in primo piano e quasi ad ogni inquadratura: dopo mezz’ora sembrava di assistere ad una produzione di Aurelio De Laurentiis, il migliore in assoluto a sfruttare la pubblicità al cinema; e sinceramente il cuore ha cominciato a lacrimare pensando che quello a cui si stava assistendo era proprio un obbrobrio firmato Woody Allen.
Le quattro storie che si intrecciano sono sciocche e arraffazzonate da spunti di altre sceneggiature decisamente meglio riuscite del regista: partono all’unisono per poi abbandonare pure il filo temporale che poteva tenerle unite (una si svolge nell’arco di 24 ore, un’altra per 15 giorni, ecc…) e l’assurdo è che l’anomalia in questione è piuttosto evidente visto il rimpallo delle scene, e certo che se in una storia un minuto prima il sole splende come a mezzogiorno e nell’altra un minuto dopo è notte e diluvia qualcosa di strano c’è  (magari fosse finzione cinematografica!?!) dato che si è nella stessa città, Roma. Già Roma, l’unica nota positiva di questo lavoro di Allen è la città eterna: in tal senso la cartolina è evidente perché la meraviglia che viene mostrata è tutta naturale e nulla è merito di regia, fotografia o altra tecnica cinematografica…dalle Terme di Caracalla ai vicoli di Trastevere, da Trinità de’ Monti alla Fontana delle Tartarughe di Piazza Mattei, dall’Ara Pacis a Fontana di Trevi, dal Foro di Traiano a Villa Borghese e Piazza Esedra.
Dispiace per la numerosa manovalanza italiana impiegata nella produzione, dai tecnici agli attori che sicuramente speravano in altro tipo di esperienza e figura quando sono stati chiamati; potranno dire di aver lavorato con Woody Allen, certo, ma meglio vantarsene con chi non avrà visto la pellicola. Anche per questo motivo preferisco non citare nessuno degli sfortunati attori nostrani presenti, e se proprio va segnalato qualcuno per l’interpretazione indichiamo i due attori che forse in futuro potrebbero tornare utili in un film decente di Woody Allen, e cioè Jesse Eisenberg ed Ellen Page. Ne esce sempre e comunque bene anche in una caduta di stile come To Rome with love il Woody Allen attore, doppiato per l’occasione per la prima volta da Leo Gullotta dopo la scomparsa di Oreste Lionello, suo doppiatore italiano storico ed inconfondibile per oltre trent’anni.
Essendo il Cinema anche un’industria con una economia da far girare oltre che la Settima Arte, va sottolineato che riguardo l’aspetto strettamente monetario To Rome with love dopo appena una settimana dall’uscita è riuscito a sbaragliare qualsiasi incasso precedente delle opere di Woody Allen in Italia e punta decisamente a diventare uno dei maggiori blockbuster stagionali del Belpaese; questo sta a significare che la marchetta è andata a buon fine, che gli astuti investitori hanno raggiunto il loro scopo facendo cassa e che, qualora ce ne fosse bisogno, questa è una ulteriore dimostrazione che è evidente che non ci sia alcuna attinenza tra incasso al botteghino e valore qualitativo di un film. Dopo aver visto To Rome with love lo sconforto e la delusione all’uscita dalla sala sono stati attenuati da una certezza rassicurante…Woody Allen fa un film all’anno, difficile cada più in basso di così, ancora qualche mese e potrà cadere nel dimenticatoio questa sua sciagura romana.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE
Paco De Renzis

sabato 21 aprile 2012

Minacce e insulti ai volontari di Radio Siani, arrestato il personaggio


Ieri, 20 aprile 2012, nel tardo pomeriggio alcuni volontari di Radio Siani, la radio della legalità che ha sede ad Ercolano in un appartamento confiscato al boss della camorra Giovanni Birra, sono stati oggetto di minacce e insulti da parte di un pregiudicato che gli inquirenti ritengono vicino proprio al clan Birra. Il fatto è accaduto mentre una scolaresca proveniente da Taranto era in visita alla radio. Il pregiudicato, visibilmente ubriaco, dopo aver più volte lanciato minacce di morte verso i volontari affacciati al balcone, è riuscito ad introdursi in radio. Trascinato via da un suo conoscente ha urlato “Guarda sti scemi, fanno parte dell'antiracket... vi devo uccidere tutti”. Per fortuna l'uomo è stato immediatamente arrestato dai carabinieri della tenenza di Ercolano guidati dal comandante Gianluca Candurra. I militari che hanno sempre dimostrato attenzione e vicinanza alle attività di Radio Siani sono infatti intervenuti subito, tranquillizzato i ragazzi e assicurando alla giustizia il pregiudicato. “Non siamo preoccupati, i carabinieri come sempre, ci hanno tutelati. Il personaggio che ci ha minacciati ha avuto ciò che meritava, tra l'altro era da poco stato scarcerato. Abbiamo denunciato l'accaduto perché nessuno deve permettersi di pensare di poter fare o dire ciò che vuole in qualsiasi momento contro i ragazzi di Radio Siani impegnati quotidianamente sul territorio in battaglie per la diffusione della cultura dell'antimafia e della legalità. - spiega Amalia De Simone, direttore di Radio Siani – è un episodio che merita attenzione soprattutto perché accaduto mentre c'erano degli studenti in visita. Continueremo normalmente le nostre attività, anzi, stiamo arricchendo il palinsesto con nuove trasmissioni che nascono da collaborazioni con professionisti ed associazioni. Inoltre ricominceremo a breve a trasmettere i processi di camorra, tra questi, alcuni che riguardano gli intrecci tra casalesi e colletti bianchi”.




giovedì 19 aprile 2012

LIVING IN THE MATERIAL WORLD - il documentario su George Harrison firmato Scorsese


Uno dei più grandi registi viventi, Martin Scorsese, a cui si devono capolavori della cinematografia come Toro Scatenato, The Departed, Hugo Cabret si è dedicato nell’arco della sua carriera anche alla narrazione documentaristica di alcuni miti del rock: è passato dal racconto del concerto d’addio dei The Band con The Last Waltz, a quello celebrativo dei Rolling Stones in Shine a Light, per poi girare il più recente No Direction Home dedicato alla vita di Bob Dylan.
A cinquant’anni dall’uscita del primo disco dei Beatles, il singolo Love Me Do, esce finalmente al cinema GEORGE HARRISON-LIVING IN THE MATERIAL WORLD, lo straordinario film tributo del regista italo-americano a George Harrison, e agli intramontabili Fab Four. 
Grazie a immagini rare o del tutto inedite - e alle testimonianze dei suoi amici più cari e dei familiari tra cui anche Paul McCartney, Ringo Starr, Eric Clapton, Yoko Ono, Tom Petty, Ravi Shankar, Phil Spector, la moglie Olivia  e il figlio Dhani - Martin Scorsese ricostruisce pagina per pagina, canzone per canzone, la vita e l’opera dell’enigmatico “terzo Beatle”, non mancando di cogliere l’ironia e la purezza di una delle più carismatiche personalità musicali del XX secolo. Una storia, quella raccontata dal film, che parte dall’infanzia e si snoda attraverso l’ingresso nei Beatles a 17 anni, l’organizzazione del primo evento charity della storia con il Concerto per il Bangladesh - che, successivamente pubblicato, gli valse un Grammy come miglior album dell’anno - la fondazione della casa di produzione cinematografica HandMade Films (per finanziare Brian di Nazareth dei Monty Python), fino alla prematura scomparsa di Harrison nel 2001, per un tumore fulminante al cervello.
Un documentario elegante e intenso, affidato a Scorsese e fortemente voluto dalla moglie di George, Olivia Harrison. Attraverso le immagini, le parole e la musica GEORGE HARRISON - LIVING IN THE MATERIAL WORLD dipinge il quadro di una personalità complessa e affascinante, irrequieta e inafferrabile, di grande umanità e generosità e perennemente alla ricerca di una verità più ampia e di un contatto vero con il mondo. 
Personaggio contradditorio, spirito libero fra il mistico e il rock'n'roll, Harrison è stato autore e chitarrista magistrale e dalle retrovie dei Beatles ha scritto alcune delle loro canzoni più belle. Something, Here comes the sun, Taxman, The inner light, Within you without you, While my guitar gently weeps sono solo alcune delle più belle pagine dei Beatles che portano la sua firma, pagine che proseguono con la pubblicazione, in seguito allo scioglimento della band, di alcuni album capolavoro come il celebre All things must pass. Scorsese ci conduce così attraverso un viaggio musicale e spirituale, in bilico tra sacro e profano, nella mente e nell’anima di uno dei più talentuosi artisti della sua generazione.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE

venerdì 13 aprile 2012

IL BACIO DELLA LUNA-Un cartone animato per abituare alle diversità lo sguardo dei bambini, in Francia…e in Italia?


Ci fosse in Italia una proposta per mostrare nelle scuole elementari un cartone animato con protagonisti due pesciolini omosessuali potremmo andare incontro a crociate mediatiche e politiche con a capo personaggi come Giovanardi e Ferrara, spalleggiati e istigati dal clero vaticano che comincerebbe a scomunicare a destra e manca corpo docente e tutti i genitori dei bambini che vedessero tale “sconcezza”. In Francia ci sono voluti due anni per contrastare le polemiche e le contestazioni di associazioni cattoliche e di alcuni genitori bigotti ma alla fine il progetto ha preso piede e nel mese di aprile del 2012 Il bacio della luna sarà proiettato in tutte le scuole pubbliche del paese ai bambini di quarta e quinta elementare: ma cos’è Le baiser de la lune (titolo originale), e perché la sua visione è entrata a far parte di un progetto destinato ai bambini? Il cartone animato girato dal regista Sebastian Watel è una semplice opera realizzata con disegni di sabbia e pastello vivace e racconta una piccola fiaba che parla di un gatto convinto che l’amore non possa essere altro che quello tra principi e principesse (maschi e femmine) e, guardando dal castello in cui vive l’innamoramento di due pesciolini, Leon e Felix, lo considera con diffidenza alla stregua dell’amore impossibile tra la luna e il sole. Eppure la sua considerazione cambia quando riesce a notare la bellezza del rapporto libero e felice tra i due pesciolini, e confrontandosi con essi modifica la propria opinione accorgendosi che la sua visione non era per forza di cose l’unica giusta e possibile. Il film d’animazione di Watel ha la forza della semplicità e il progetto che lo porterà nelle scuole elementari della Francia è improntato a renderlo il mezzo utile ad abituare lo sguardo alla differenza, alla tolleranza e a mostrare che non esiste un solo modello d’amore. La bellezza de Il bacio della luna sta anche nella capacità di rendere anomala la visione di chi discrimina e non nel presentare come strana la situazione discriminata, nel rendere ridicolo lo stereotipo assoluto che vede possibile una coppia formata solo da persone di sesso opposto; l’evoluzione della storia porta i protagonisti, tramite il confronto e la conoscenza, a comprendersi riflettendo su quanto fosse sbagliato il pregiudizio da cui nasceva anche la mancanza di rispetto nei confronti dell’altro. A mio parere progetti del genere possono essere fondamentali per la formazione di una cultura della tolleranza nei bambini in una società come quella moderna che purtroppo è incline alla discriminazione, al razzismo come all’omofobia; Le baiser de la lune è un modo divertente per far si che i bambini imparino a confrontarsi con ciò che può essere diverso rispettandolo e magari crescendo con la consapevolezza che l’amore, come la religione, come il pensiero può esprimersi in maniere differenti senza per questo generare intolleranza. È ora che ci si muova anche in Italia con progetti del genere superando finalmente i veti imposti dall’anacronistica quanto inopportuna ombra vaticana che come una zavorra ci tiene lontani dalla naturale evoluzione dei diritti civili fondamentali.   


Paco De Renzis

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE e da InformareXresistere