giovedì 26 gennaio 2012

ACAB – la degenerazione sociale in un poliziesco dall’impatto devastante


I film di genere in Italia sono da sempre accolti con sufficienza, come facessero parte di un Cinema minore che non prende rischi e responsabilità: Stefano Sollima con ACAB ha dimostrato esattamente il contrario. Ha voluto girare un poliziesco rischiando non poco sia perché ha attinto a piene mani dal controverso e discusso libro-inchiesta di Carlo Bonini (stesso titolo libro e film) sia perché raccontando ,a margine della storia dei poliziotti protagonisti, eventi tragici avvenuti negli ultimi anni nel Belpaese (G8 di Genova, stupro-assassinio di Giovanna Reggiani, omicidi dell’agente Raciti e di Gabriele Sandri) avrebbe potuto facilmente fare un lavoro schierato politicamente, di parte. ACAB racconta le vicende di esseri umani mostrando crudamente le loro scelte sbagliate così come le frustrazioni che la vita quotidiana gli vomita addosso: il paradosso è che i protagonisti di questa storia sono forze dell’ordine e nella loro esistenza tutto pare riescano a mantenere fuorché l’ordine e la tranquillità dell’ambito personale e familiare.

Cobra, Mazinga e Negro sono tre poliziotti del reparto mobile, “celerini” come vengono definiti e come amano definirsi: hanno vissuto sulla loro pelle la degenerazione di una società che non riesce a mantenere le regole che si è data per il vivere civile e li chiama come ultimo baluardo per mantenere un ordine quasi inesistente, e vissuti in mezzo all’odio e alla violenza costante sono divenuti loro stessi specchio di quel lato perverso dello Stato che dovrebbero difendere e rappresentare. I “celerini” dicono che da soli non sono nessuno, hanno bisogno dei “fratelli” per fare squadra, e quando si è parte di un gruppo si diventa qualcuno, perché quando “sei per strada non c’hai nessuno, solo i fratelli”. L’uso spregiudicato della forza, il farsi giustizia da soli anche lì dove la legge dice di fermarsi è consuetudine per Cobra e i suoi fratelli, che devono fare i conti con storie private che esasperano l’approccio con le storture del mondo esterno che incontrano durante il lavoro: così quando alla squadra viene assegnato Adriano, un ventenne delle borgate, si rendono conto di doverlo addestrare a diventare un “celerino”…come loro.

ACAB è l’acronimo di “All Cops Are Bastards”(tutti i poliziotti sono bastardi), motto venuto alla ribalta per una canzone di un gruppo rock skinhead inglese negli anni ’70 (presente nella devastante colonna sonora con White Stripes, Clash, Chemical Brothers) e divenuto da allora sigla universale che unisce e contraddistingue le frange violente delle tifoserie calcistiche e dei movimenti di guerriglia urbana. Il regista Stefano Sollima, all’esordio cinematografico dopo l’apprezzata prova televisiva con la serie di Romanzo Criminale,  in seguito alla lettura del libro di Bonini ha pensato fosse l’ideale per ricavarne un film di genere che potesse esprimere anche una denuncia sociale molto forte. In effetti il prodotto di questa idea di Sollima è una eccellente pellicola che racconta la società di oggi, piena di odio e intolleranza, ma dal punto di vista dei “celerini” esplorati come mai era stato fatto prima. Con ACAB cambia la prospettiva con cui il cittadino comune guardava al poliziotto senza considerarlo una persona con vita propria; il celerino è il primo a cui viene chiesto aiuto ed è il primo che viene insultato e combattuto per quell’assenza dello Stato che rappresenta con la sua divisa, assenza di cui è vittima il celerino stesso, assenza che viene palesata per tutto l’arco della pellicola.

Il film si suddivide in una prima parte molto fisica e d’azione con riprese di guerriglia, di scontri, con la violenza sbattuta in faccia dalle immagini crude e realistiche; e in una seconda parte più introspettiva, in cui la narrazione si sofferma sulle problematiche dei protagonisti, sul loro stato d’animo associandolo e annodandolo in maniera prepotente agli abusi e alle azioni violente.
Il cast è formidabile: l’esordiente Domenico Diele non poteva trovare compagni migliori per la sua iniziazione, e se Marco Giallini col passare del tempo si sta confermando uno dei più versatili e convincenti interpreti della cinematografia italiana degli ultimi anni, ha piacevolmente sorpreso il lato oscuro della recitazione di Filippo Nigro conosciuto finora attraverso le opere di Ozpetek e Lucini. E che dire di Cobra? Che è interpretato da un fuoriclasse, da uno dei più bravi, se non il più bravo, della generazione degli attori italiani quarantenni: Pierfrancesco Favino è un fiume in piena ad ogni ruolo interpretato, e la condizione emotiva che trasmette con il suo “celerino” rabbioso e solitario, fiero e frustrato, è l’emblema della storia rappresentata nel film. La storia di ACAB si conclude senza eroi, senza permettere allo spettatore di parteggiare per nessuno; alla fine tutti i personaggi rappresentati risultano sconfitti a partire da quei “celerini” che Sollima definisce “spugne d’odio” per finire alla società che li circonda e che li rende tali o permette loro di essere tali.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE


Pasquale De Renzis

domenica 22 gennaio 2012

SHAME – il sesso come dipendenza…in un dramma di ottima qualità


La capacità provocatoria di un’opera d’arte è proporzionale al significato insito nella provocazione stessa. Shame è una pellicola girata in maniera superba, tecnicamente egregia, con atmosfere e scelte narrative pregevoli, particolari mai casuali: è film decisamente provocatorio per la natura alquanto esplicita dell’esposizione dell’ossessione del protagonista della storia. Brandon è un trentenne di successo con un lavoro appagante che vive a New York, e per evadere dalla ripetitività quotidiana ricerca in modo maniacale di sedurre le donne per avventurarsi in incontri di una notte. Potrebbe sembrare il profilo di un qualsiasi dongiovanni allergico ai rapporti impegnativi, di un playboy sbruffone e narcisista: invece Brandon è un personaggio emotivamente e psicologicamente disturbato, un sessuomane che è ossessionato dal rapporto fisico ma fine a sé stesso, non come dimostrazione di un sentimento o appagamento simbiotico del piacere proprio e della persona amata, anzi paradosso vuole che appena entra in gioco l’affetto per una donna l’uomo diventi vittima di impotenza fisica e comportamentale. Brandon non è un depravato né un molestatore, è un sesso-dipendente che si masturba quotidianamente nei bagni dell’ufficio e sotto la doccia, che quando non trova occasioni di incontri nei locali o un approccio non va a concludersi come vorrebbe ripiega con le prostitute, frequenta privè per omosessuali e accumula quantità notevoli di materiale porno oltre a scambiarsi effusioni in internet ogni notte tramite web cam; eppure nessuno sospetta minimamente di questa ossessione, la sua esistenza prosegue metodica tra ufficio e bevute con colleghi di lavoro che lo vedono un uomo come tanti, in carriera, di bell’aspetto e senza voglia di sposarsi. Nemmeno la sorella che vive a Los Angeles e lo incontra sporadicamente sospetta del disturbo di Brandon, ma sarà proprio la sua presenza, la forzata quanto improvvisa convivenza con la ribelle e problematica personalità della ragazza a mettere in crisi la linearità abitudinaria di quella mania.

Shame è un film drammatico, letteralmente il significato del titolo è “imbarazzo”, “vergogna”, ma il senso della storia travalica la forza di queste parole che assumono importanza nel quadro generale dello stato esistenziale del protagonista che in realtà non pensa di potersi trovare in imbarazzo perché non crede possibile la sua ossessione venga scoperta, eppure nel suo essere anonimo pare vivere costantemente vergognandosi di sè. Il ruolo della sorella diviene fondamentale per la crisi di coscienza di Brandon, e il pensiero che torna ad esperienze condivise, ad una condizione familiare passata destabilizza le sue certezze maniacali. Come ha detto il regista, la sessuomania è un mezzo per la trama che necessitava di una dipendenza, ma poteva riguardare il cibo o qualsiasi altra cosa; certo è che nell’era moderna le patologie riguardanti la sfera sessuale sono aumentate soprattutto a livello psicologico per una sovraesposizione dell’argomento (vedi internet), e l’incapacità di rapportarsi con le donne in maniera affettiva o comunque convenzionale ha moltiplicato l’esistenza di situazioni come quella narrata nel film.
Steve McQueen ha girato una pellicola per nulla popolare e non solo per la materia affrontata, ma anche per lo stile utilizzato, con una paradossale quanto apprezzabile raffinatezza di immagini accompagnate costantemente da musica sublime, come ad esempio quella di Bach. La riuscita delle scelte complessive del regista per Shame trova l’esempio più lampante nei protagonisti: ad interpretare la sorella scapestrata e bisognosa d’affetto è una bravissima Carey Mulligan che seduce e commuove come dimostra l’esecuzione in chiave struggente del classico New York New York.
Il protagonista Brandon ha le sembianze di un eccezionale Michael Fassbender che ha meritato la Coppa Volpi a Venezia per questa interpretazione: divenuto ormai attore feticcio per McQueen (già presente nel suo esordio Hunger purtroppo inedito in Italia è stato precettato per la prossima fatica del regista al fianco di Brad Pitt) Fassbender affronta il difficile ruolo del sessuomane con una recitazione molto fisica ma non esclusivamente nel senso che il disturbo del suo personaggio potrebbe far pensare; Brandon con lo sguardo e con i movimenti può tanto sedurre che esprimere disagio, la normalità di un uomo prestante e inflessibile diventa voracità lussuriosa di un disadattato, la rabbia per il crollo protettivo segregato nella sua ossessione diventa un emozionante pianto per la consapevolezza di poter finalmente condividere il proprio dolore senza “vergogna”.
Immagini piuttosto esplicite di alcune delle sequenze dei rapporti sessuali potrebbero infastidire chi non trova appropriata e necessaria la sovraesposizione e la descrizione scenica di determinate azioni, e sarebbe lungo anche se mai inutile il discorso su ciò che in realtà più dovrebbe impressionare, scandalizzare tra sesso e violenza nei film; ad ogni modo Shame non ha nulla a vedere con il cinema porno, anzi chi si aspetta qualcosa di simile rimarrà senz’altro deluso.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE



Pasquale De Renzis

mercoledì 18 gennaio 2012

NON AVER PAURA DEL BUIO – un horror come tanti…con il tocco di Guillermo Del Toro

Le case infestate da presenze demoniache, bambini come protagonisti della storia: questi sono elementi abbastanza consueti nel genere horror e non mancano nemmeno nel film del fumettista Troy Nixey. Anche per questo Non aver paura del buio dà, in diversi momenti, la sensazione di già visto, ma trova nella sceneggiatura di Guillermo Del Toro la creatività necessaria a rendere non del tutto scontata la trama. La protagonista è la piccola Sally , figlia di genitori separati, “costretta” a trasferirsi all’improvviso dal padre per decisione della eccentrica madre convinta che abbia qualche disturbo psico-fisico. Il disturbo altro non è che conseguenza emotiva al divorzio dei suoi, ma il trasferimento nella villa ottocentesca che il padre sta restaurando con la nuova compagna, porta Sally al vero e proprio sconvolgimento seguito alla scoperta nella casa della presenza di piccole creature mostruose che al buio si palesano terrorizzando la bambina: Sally li ha involontariamente liberati e loro ora hanno bisogno di un sacrificio umano per continuare ad esistere nelle viscere di quella dimora.
Non aver paura del buio raggiunge lo scopo primario dell’horror: fa paura, soprattutto perché associa l’angoscia a ciò che di più terrorizza la maggior parte degli esseri umani fin dalla tenera età, il buio. L’idea per la pellicola è venuta a Guillermo Del Toro ripensando a un telefilm degli anni ’70 che lo aveva particolarmente impressionato: titolo identico ma ambientazione e caratteristiche dei personaggi modificati dalla mente “perversa” e geniale del regista messicano (Mimic – La spina del Diavolo – Il labirinto del fauno) che anche stavolta ha ceduto la direzione ad un giovane regista, in questo caso il fumettista americano Nixey all’esordio dietro la macchina da presa per un lungometraggio, producendo la pellicola così come aveva fatto con Juan Antonio Bayona per The Orphanage che ha sbancato i botteghini diventando il film spagnolo che ha incassato di più in tutto il mondo. Se a livello economico eguagliare il boom della fatica precedente potrebbe non essere impossibile per Del Toro, grazie alla co-produzione e distribuzione americana, per Non aver paura del buio il confronto con The Orphanage, qualitativamente parlando, è già perso.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE
Pasquale De Renzis

lunedì 16 gennaio 2012

LA TALPA – le migliori spy story non hanno bisogno d’azione e effetti speciali


L’idea di girare un film di spionaggio con l’assenza quasi totale di scene d’azione nel 2012 è anacronistica, ma questo può non essere un difetto, anzi. La Talpa è un thriller raffinato, di estremo pregio stilistico e recitativo: è una “spy story” cerebrale che riduce all’osso gli spari e il sangue, ma non certo la tensione che, seppure non in maniera ansiogena, incombe dall’inizio alla fine. Il regista Tomas Alfredson, apprezzato all’esordio per Lasciami Entrare, si è voluto misurare con uno dei romanzi più amati di John Le Carrè che negli anni ’70 era già stato trasposto in immagini ma per una serie tv con protagonista Alec Guinness. Le difficoltà erano molteplici nel girare questo film perché oltre a dover confrontarsi con un mostro sacro della letteratura spionistica c’era la sfida di riportare una storia che per la tv aveva avuto bisogno di essere raccontata in sette puntate, in appena due ore sul grande schermo; e non ultima c’era la necessità di trovare un attore che riuscisse a rendere suo il personaggio dell’agente Smiley magari non facendo dimenticare l’eccezionale Guinness ma almeno lasciando un’impronta personale. E probabilmente partendo da quest’ultimo e significativo particolare del protagonista, Alfredson è riuscito nel suo intento superando tutte le difficoltà: Gary Oldman è perfetto, sguardo glaciale, postura e parlata imperturbabili, ciò che una spia durante la Guerra Fredda doveva essere, anonima e camaleontica. L’attore inglese capitana una straordinaria squadra di interpreti britannici che, a partire dall’immenso John Hurt per finire al giovane Tom Hardy passando dal premio Oscar Colin Firth, arricchisce l’intrigante messinscena con pregevole bravura. Il senso della storia è tutto nel titolo, si svolge in piena Guerra Fredda nell’ambiente dell’MI6, i servizi segreti britannici, e vede coinvolti 5 agenti tra i quali, secondo un esperto capo-spia che di colpo verrà pensionato, si nasconde da tempo un infiltrato del KGB; il film è un susseguirsi di ricerche e sospetti, di analisi temporali e comportamentali, tutto riassunto in una filastrocca inglese , “Tinker, Tailor, Soldier, Spy” , che oltre ad essere il titolo originale della pellicola serve a colui che crede nella presenza della “talpa” per identificare i sospettati con nomi in codice.
A metà strada tra Gorky Park e I tre giorni del Condor , lontano anni luce dai vari 007 e i Mission Impossible , La Talpa è un notevole film di genere.

articolo pubblicato da L'INDIEPENDENTE WEBZINE
Paco De Renzis

martedì 10 gennaio 2012

IMMATURI-IL VIAGGIO quando il mercato “impone” il sequel


Il mediocre film di un buon regista di commedie come Paolo Genovese, ha un artefice per nulla occulto che da sempre ma ancor di più negli ultimi anni condiziona il livello artistico e non solo quello economico della cinematografia italiana in particolare: il “mercato”, e più precisamente il “botteghino”. Una marea di inutili sequel (lett. “seguito”) vengono riversati nelle sale italiane per attirare coloro a cui era piaciuta la pellicola originaria, naturalmente sempre e solo che nel primo caso gli incassi abbiano portato a sbancare i botteghini. Immaturi del 2011 era un film divertente con una trama abbastanza originale, non parliamo di commedia di altissimo livello narrativo o stilistico ma certamente di buona fattura e di discreta scrittura che non si limitava all’accozzaglia di sketches e al magnetismo di un cast popolarissimo; il sequel che ha inaugurato il 2012 cinematografico invece è dimenticabile e sa di già visto. Immaturi – il viaggio è simpatico, qualche risata te la fa fare soprattutto grazie a Maurizio Mattioli, ma l’inconsistenza e la mediocrità prevalgono in generale per una storia di viaggio in terra ellenica che è stata battuta una marea di volte dal cinema italiano,  e infatti il film in questione pare scopiazzare un po’ da Che ne sarà di noi di Giovanni Veronesi e in parte da Dillo con parole mie di Luchetti, a loro volta pellicole non memorabili. Il sequel diventa inutile se non addirittura deleterio quando il mercato ti costringe a girarlo nel breve termine, appena il film originario riceve riscontro positivo dal botteghino e si vuole battere il ferro finchè è caldo: l’immediatezza di tale necessità va a scapito della qualità dell’opera, quindi la sceneggiatura viene buttata giù senza starci troppo a riflettere, e la regia si adegua provando almeno a sfruttare ciò che viene messo a disposizione. Paolo Genovese ha dato il meglio quando ha diretto in coppia con Luca Miniero regalando due piccoli gioiellini cinematografici come Incantesimo Napoletano e Nessun Messaggio in Segreteria; grazie a queste ottime prove i due registi promettenti hanno spiccato il volo rispettivamente con Immaturi e Benvenuti al Sud conquistando riconoscimenti e popolarità, ma soprattutto l’attenzione dei grandi produttori e distributori…speriamo le loro scelte future non vengano condizionate da questa ingombrante attenzione che per ora li ha costretti a girare due sequel.


articolo pubblicato da NAPOLI.COM

 

Pasquale De Renzis

venerdì 6 gennaio 2012

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON


Mark Twain disse che “il meglio della vita è all’inizio e tutto il peggio alla fine; quanto preferibile sarebbe godere della giovinezza con l’esperienza di chi ha già vissuto, di chi sa apprezzarla…”; prendendo spunto da questa frase Francis Scott Fitzgerald nel 1921 scrisse un racconto breve con al centro la figura di un uomo che nasce anziano per ringiovanire man mano; da questa incredibile storia David Fincher ha avuto l’idea di trarne un film, Il Curioso Caso Di Benjamin Button.
La narrazione comincia in un ospedale di New Orleans, nei giorni dell’uragano Katrina; una donna molto anziana è immobilizzata in un letto e a detta delle infermiere ha le ore contate, al suo capezzale c’è la figlia a vegliarla e a parlarle; con quel poco di forza che ancora le resta la madre le chiede di leggerle un diario ma prima le racconta una storia, risalente al 1918, tramandatale da suo padre: un orologiaio cieco perde in guerra il suo unico figlio e, incaricato di costruire un grande orologio per l’inaugurazione della stazione centrale, mette a punto un meccanismo che va a ritroso, nella speranza che anche il tempo si riavvolga e riporti alle loro famiglie i giovani caduti sui campi di battaglia.
Come una sorta di prologo questo racconto lascia spazio alla lettura del diario: vi è scritta, in prima persona, la vita di un uomo che, come dice lui, è nato in circostanze insolite.
Venuto alla luce l’indomani della fine della Grande Guerra si capisce immediatamente che non è come tutti gli altri neonati: pelle raggrinzita e corpo deformato, il piccolo è nato già vecchio.
La madre, nel partorirlo, è morta; ma prima di andarsene chiede al marito di occuparsi di quella creatura; ma per rabbia o forse per paura l’uomo decide di non seguire le ultime volontà della moglie e senza pensarci due volte abbandona il figlioletto sulle scale di una palazzina: l’edificio altro non è che una casa di cura per anziani portata avanti da inservienti di colore.
Proprio una di loro ritrova quel fagottino e gli dà nome Benjamin; per i medici quello strano essere umano avrà vita breve, ma alla donna poco importa ed inizia ad accudirlo come fosse suo figlio.
Comincia così l’incredibile storia della vita di Benjamin Button; con il passare del tempo si fanno più chiare le sembianze da ultra ottantenne con la particolarità che lo vede comportarsi esattamente come un bimbo di pochi anni; non sa parlare, non riesce a camminare, tanto che fino a sette anni resta su una sedia a rotelle.
Gli anni passano, la fine che era stata annunciata dai medici non arriva e Benjamin cresce accanto agli anziani della casa di cura ringiovanendo sempre più.
Le varie fasi della vita paiono plasmare la sua personalità e le emozioni che prova al cospetto di ognuna delle persone che incontra gli permettono di vivere la sua condizione normalmente nonostante ogni cosa che faccia risulti fuori dall’ordinario per uno come lui, questo vale anche per l’incontro che gli segnerà l’esistenza: ogni tanto in casa arriva una ragazzina che viene a trovare la nonna e dalla prima volta che la vede, Benjamin ne rimane folgorato, e anche lei capisce immediatamente di trovarsi al cospetto di un essere straordinario.
Il rapporto tra i due è speciale e non sembrano per nulla dare importanza a quella “piccola differenza” che vede l’uno nel corpo di un anziano e l’altra in quello di una adolescente.
Ringiovanendo Benjamin sente il bisogno di vivere, lui che non è mai uscito di casa per il divieto impostogli dalla sua madre acquisita; e con la conoscenza del mondo esterno arrivano le esperienze, arriva la consapevolezza di ciò che fin lì ha ignorato, arriva il primo lavoro, arriva la scoperta del sesso.    
Rinchiuso nel corpo di un sessantenne, il suo animo da ventenne decide di imbarcarsi da marinaio per riuscire finalmente a viaggiare e allo stesso tempo lavorare, approfittando della splendida amicizia nata con uno scorbutico lupo di mare.
Nel gelo della Russia Benjamin trova per la prima volta l’amore: nato quasi per caso, questo sentimento gli rivelerà i turbamenti e le passioni ad esso conseguenti facendolo crescere interiormente ancora di più.
Destino vuole che subito dopo l’amore gli si presenti la crudeltà e l’odio rappresentato dalla guerra, e le morti e le atrocità di cui sarà spettatore lo segneranno quasi allo stesso modo delle belle emozioni provate in Russia.
Il ritorno a casa porta Benjamin a confrontarsi con i cambiamenti, quelli personali e quelli del mondo in cui era cresciuto: uno di questi è avvenuto sicuramente in Daisy, la bambina che da piccolo lo aveva folgorato e a cui lui ha continuato a scrivere da ogni porto in cui sbarcava. È ormai diventata una donna bellissima, si è trasferita per realizzare il suo sogno di ballerina e ci sta riuscendo; tra i due le emozioni sono le stesse ma la vita li ha portati a concezioni diverse che paiono non poter confluire in quello che una volta immaginavano.
Il tempo passa e Benjamin diventa sempre più giovane ed aitante; le esperienze e gli incontri lo portano a vivere appieno una vita che gli ha regalato una saggezza e una tranquillità non adatte alle sue sembianze.
Proprio quando la sua crescita a ritroso sta per incrociare l’età di Daisy, tanto da renderli coetanei non solo anagraficamente ma anche fisicamente, i due si ritrovano per colpa o per merito del chissà quanto infame destino; e da quel momento inizia il periodo più bello della loro vita…ma per quel “curioso caso” che ha sempre condizionato l’esistenza di Benjamin Button quella felicità è destinata a durare ben poco; del resto tutte le cose belle prima o poi sono destinate a finire.
Il Curioso Caso Di Benjamin Button è una favola; fantascientifica, melodrammatica, ma pur sempre favola. L’ultima opera di David Fincher ha innumerevoli significati e sfaccettature, provoca una quantità impressionante di emozioni ed ha la capacità di coinvolgere lo spettatore per oltre due ore e mezza di visione.
Una storia così atipica e fantastica fa riflettere sulla vita e sulla morte, sulle varie fasi dell’esistenza e sulla possibilità di viverle con identica intensità; è un film che parla della diversità, dell’emarginazione, racconta con semplicità un secolo di cambiamenti attraverso l’evoluzione di un corpo che anziché invecchiare ringiovanisce, e al contrario della società in cui cresce impara dalle proprie esperienze facendone bagaglio per quella saggezza che lo lascerà solo parzialmente negli ultimi anni di vita, vittima della demenza senile paradossalmente arrivata ad infanzia raggiunta.
Le metafore e i simboli magistralmente disseminati dallo sceneggiatore Eric Roth e da Fincher per tutta la pellicola, evidenziano la volontà di disegnare un percorso esistenziale che vada al di là del singolo individuo di cui si raccontano le vicende; il film comincia e si conclude nei giorni dell’uragano Katrina e non può considerarsi ciò solo un espediente narrativo; intenzione chiara pare quella di mostrare una possibile rinascita di una società dalle sue macerie, dalle sue disgrazie, di unire e di rendere logica conseguenza l’una dell’altra, la morte e la vita.
Le scelte visive sono tecnicamente pregevoli, e lo spazio temporale sotto forma di flashback non subisce svantaggi rischiando di risultare qualcosa di già visto, anzi, acquisisce meriti per una narrazione più fluida oltre che affascinante.
Recitazione di alto livello nell’insieme del cast: ottima Cate Blanchett nel ruolo di Daisy, sempre più affidabile nella sua bellezza eterea ma comunque intensa emotivamente anche nelle espressioni di una donna in età avanzata; brava Tilda Swinton, scelta da Brad Pitt che giustamente aveva visto l’attrice come perfetta figura di donna inglese distaccata e sensuale allo stesso tempo; davvero sorprendente Taraji Henson nel ruolo della donna di colore che si prende cura di Benjamin fino a diventare a tutti gli effetti sua madre; buona la prova di tutti gli interpreti di contorno, dai bambini agli anziani della casa di cura fino a Julia Ormond ed Elias Koteas.
E che dire di Brad Pitt: la sua prova è egregia ed è sicuramente più impressionante e da lodare la parte del film in cui è stato costretto a recitare esclusivamente con il suo viso, truccato da anziano, sovrapposto al corpo di controfigure; è arrivato a girare quelle scene da solo in una stanza ripreso da quattro telecamere dopo aver visto e studiato il recitato di tutti gli altri interpreti, dovendosi affidare alla sua abilità, alle intuizioni emotive e al coinvolgimento totale nei panni del personaggio.
Senz’altro il ruolo più difficile della sua carriera, ma anche il più avvincente come egli stesso ha affermato.
Dati i giusti meriti agli interpreti tutti e soprattutto a Brad Pitt, va dato atto a David Fincher di aver sconvolto non poco il pensiero che si aveva fin qui del suo modo di dirigere, e la considerazione generale che addetti ai lavori e pubblico avevano di lui: il regista ha dato vita a un’opera colossale con Il Curioso Caso Di Benjamin Button, non solo per l’ingente produzione ma per aver sfidato la convenzione cinematografica volendo a tutti i costi fare un film di questa portata, complicato tecnicamente e moralmente; si è superato mettendosi alla prova, stravolgendo il suo cinema fin qui fatto di colpi di genio legati alla tensione, all’esplorazione del lato oscuro degli esseri umani, ha raggiunto la consapevolezza di essere in grado di osare uscendo fuori da quegli schemi che lo avevano fatto conoscere ed apprezzare, arrivando addirittura a citare ed omaggiare una pellicola come Il Favoloso Mondo Di Amelie nelle scene girate a Parigi; tutto questo detto da un estimatore, quale io sono, delle sue opere passate (SevenThe GameFight Club).
Quando ci si trova dinanzi ad opere di questa fattura e talmente emblematiche si capisce ancor di più la magnificenza del Cinema, e forse per evidenziarne la straordinarietà basta citare la frase di Francis Scott Fitzgerald che accompagna il trailer della pellicola: “Anche se la vita si può vivere solo in avanti, la si può capire solo guardandosi indietro”.


(recensione pubblicata nel libro GEMME DI CELLULOIDE )


Paco De Renzis

domenica 1 gennaio 2012

BIG FISH – le storie di una vita incredibile


Ci sono vite che raccontate assumono un fascino mai percepito da chi le aveva vissute, spesso perché superano o ricamano gli avvenimenti realmente accaduti, ma sono queste storie incredibili che sopravvivono alla morte di chi le ha raccontate rendendolo immortale. Così ha vissuto Edward Bloom (Albert Finney), raccontando la sua vita riempiendola di storie fantastiche facendo brillare gli occhi di chi lo ascoltava senza mai dare all’interlocutore neanche il minimo dubbio sulla veridicità dei suoi racconti. Tranne che al figlio William (Billy Crudrup), ferito dal protagonismo del padre che pensa di non aver mai veramente conosciuto per quello che è; lui non crede quasi a nulla di ciò che gli è stato detto e questa continua ricerca di storie da declamare da parte del genitore lo stressa a tal punto da costringerlo ad allontanarsi dall’America trasferendosi a Parigi con la sua moglie francese. Poi Edward si ammala ed in poco tempo si aggrava tanto da non lasciare più spazio all’orgoglio del figlio che torna immediatamente nella casa in cui è cresciuto, stavolta deciso a scoprire la vera storia di Edward Bloom. Convinto dalla madre (Jessica Lange) a parlare con il genitore malato, dopo non avergli rivolto la parola per circa tre anni, William inizia a fargli domande sul suo passato lamentandosi del fatto di non aver mai avuto la possibilità di ascoltare una storia vera dalla sua voce: risultato di questo sfogo è il ritorno a quei magnifici racconti. La nascita di Ed che schizza via dal ventre della madre, le peripezie che da bambino lo hanno portato a conoscere il modo in cui sarebbe morto vedendolo nell’occhio di vetro di una strega (Helena Bonham Carter), il mito che riesce a divenire in adolescenza nel suo paese attraverso imprese eroiche e sportive, la consapevolezza da diciottenne (Ewan Mc Gregor) di aver bisogno di un mare più ampio per diventare un “pesce grosso” non accontentandosi dello stagno in cui ha vissuto fino ad allora; e così cominciano mille avventure che lo portano ad incontrare giganti buoni, ad attraversare villaggi incantati in cui tutti vivono felicemente a piedi scalzi, a ritrovarsi a rapinare una banca con un poeta strampalato (Steve Buscemi), a lavorare in un circo gestito da un personaggio piuttosto strano (Danny De Vito) che lo paga dandogli ogni mese una notizia sulla ragazza di cui Bloom si è innamorato. Quindi si assiste allo straordinario corteggiamento messo in atto dal ragazzo tra dichiarazioni d’amore scritte tra le nuvole e campi fioriti in una notte che non lasciano scampo alla donna che diverrà della sua vita. Cosa mai sarà accaduto realmente di tutto questo? William ripercorre le memorie del padre ormai morente accorgendosi che forse nulla è più reale di ciò che si vuole credere.
Big fish è una vera e propria favola che lascia una bella sensazione all’uscita dal cinema: ci si diverte, si riflette sulla vita e sulla morte, si resta a bocca aperta davanti alle scenografie create per le storie raccontate da Edward Bloom e soprattutto si va via con la tranquillità che la fantasia cinematografica non abbia lasciato l’esclusiva ai kolossal stile Il Signore degli anelli, ma alimenti la genialità di registi visionari come Tim Burton per dare vita a piccoli grandi film come questo.
Non è nuovo il regista alla trasposizione cinematografica di favole; il suo cinema è tutto permeato da illusioni sempre con tematica differente. Si va dal cortometraggio horror Frankenweenie (1984) al racconto poetico di Edward mani di forbice (1990), dal tributo-omaggio romanzato di Ed Wood (1994) alla favola gotica de Il mistero di Sleepy Hollow (1999), anche se, a torto secondo il mio parere, la maggior parte del pubblico lo ricorderà soprattutto per i primi due episodi di Batman (sicuramente quelli meglio diretti della saga), per il poco riuscito remake de Il pianeta delle scimmie e per la farsa hollywoodiana Mars Attacks!
Big fish è uno dei film meglio riusciti di Burton, una piccola meraviglia che conta poche note stonate forse più per l’eccesso mostrato nel raccontare i particolari che non per un manierismo già imputato al regista per le pellicole precedenti. Qui ci si trova dinanzi anche a due lodevoli interpretazioni che condizionano non poco il giudizio generale: Albert Finney è uno spasso nella parte del vecchio e moribondo Edward Bloom mai domo e tantomeno stanco di raccontare le sue storie; storie di cui è protagonista Ewan Mc Gregor nella parte del giovane Ed, orgoglioso e stralunato, sognatore innamorato. I due attori britannici nel film sono accompagnati da caratteristi inimitabili del cinema americano come De Vito e Buscemi, dalla dark lady Helena Bonham Carter (moglie, tra l’altro, di Tim Burton) e dalla sempre più sensuale Jessica Lange. Il film ha un finale felliniano tanto allegro quanto malinconico che non lascia dubbi sul fatto che non esiste realtà migliore di quella in cui ci si illude di essere vissuti. 


Pasquale De Renzis 

WALL-E: l'eccezionalità del cinema essenziale sotto forma di cartoon


Riassumere in poche righe la storia raccontata in questo film è abbastanza facile: Wall-E (acronimo di Waste Allocation Load Life Earth-Class, una sorta di netturbino) è l’ultimo robot rimasto sulla Terra, un mondo sommerso dai rifiuti che milioni come lui avrebbero dovuto pulire; ma il programma fallisce e Wall-E si trova da solo ad affrontare questo compito su un pianeta abbandonato dagli esseri umani, trasferiti in una gigantesca nave spaziale che vaga per l’universo; dopo molti anni di solitudine Wall-E incontra Eve (Extra-Terrestrial Vegetation Evaluator, rilevatore di presenza di vegetazione), un robot che arriva sulla Terra inviato dagli umani per un controllo, e se ne innamora; Wall-E non è un film di fantascienza ma una storia d’amore.

La difficoltà, dopo aver riassunto all’osso la vicenda, sta nello spiegare l’essenza, la bellezza di quest’opera: un gioiello d’animazione che riporta il cinema agli albori del muto, che rimanda a mio parere a capolavori come Luci della città di Chaplin.
Per oltre metà pellicola non esistono dialoghi e le uniche voci che si sentono sono quelle delle canzoni che fanno da sottofondo alla quotidianità di Wall-E; il mondo che lui abita con l’unica compagnia di uno scarafaggio è simile a quello di Metropolis di Fritz Lang, con immense montagne di rifiuti al posto delle fabbriche e delle macchine e dei grattacieli.
Favola ecologista ma soprattutto parabola morale e non moralista sulla società moderna, sui falsi predicatori e su un’umanità che va mano mano degenerando affidandosi al Grande Fratello di turno che servendosi del progresso abbindola proponendo facili soluzioni per qualsiasi problema, con il risultato di peggiorare le condizioni generali ripulendo le facciate così che anche chi sta affondando nella sporcizia si possa convincere che le cose siano realmente migliorate.
I riferimenti all’attualità da parte dei creatori di Wall-E non sono per nulla casuali, ed è emblematico pensare come la globalizzazione riesca a farci sentire solidali da un capo all’altro del mondo perché vittime degli stessi identici orrori del potere.

C’è tutto questo nel film della Pixar e anche di più: il produttore John Lasseter e il regista Andrew Stenton hanno lavorato per molti anni a questo progetto perché avevano intenzione di renderlo unico e significativo così come alla fine è venuto fuori…i temi morali che ruotano attorno alle emozioni, una storia d’amore che simboleggia la capacità di cambiare e reagire, emblematicamente la sveglia data agli esseri umani dai robot come a significare che l’umanità sta dormendo mentre c’è qualcuno che la sta portando allo sfascio e la scossa può venire solo da qualcos’altro…e poi come al solito i disegni straordinari, un lavoro meticoloso che grazie ad una nuova tecnologia, PR-Man, regala immagini e scenari sbalorditivi così come le espressioni e i movimenti dei robot che, a parte l’Autopilota che fa il verso ad Hal9000 di 2001:Odissea nello spazio di Kubrick, mostrano una sensibilità incredibile anche sottoforma di macchinari gelidi (spassosa la rivolta delle macchine matte che cita esplicitamente quella del manicomio di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman).
Wall-E è divertente, emozionante e non poco commovente; ha una solida struttura narrativa introdotta da una prima parte da cinema puro con un solo protagonista sullo schermo, scenari apocalittici, nessun dialogo e sketch geniali simil-keatoniani; la seconda parte mantiene la sua sostanza autoriale strizzando l’occhio al romanticismo con l’entrata in scena dell’altra protagonista e mostrando l’innamoramento non ricambiato di Wall-E; l’epilogo, con l’azione spostata sulla nave spaziale e l’ascolto delle prime voci umane, assume i contorni del film d’avventura con risvolti comici con più di un accenno al Lucas di Guerre stellari, almeno fino a quando la storia d’amore tra i due robot non si palesa e alcuni momenti drammatici determinano l’arrivo di qualche lacrima in sala.
Penso che le voci meccaniche di Wall-E e Eve che pronunciano ognuno il nome dell’altro rimarranno nella Storia del Cinema come quella di E.T. di Spielberg che dice “telefono casa”…anche i film d’animazione possono diventare Gemme di Celluloide.



Pasquale De Renzis