“Confesso che mi sono divertito – 100 anni di una vita straordinaria”: questo è il titolo del documentario, nato dalla collaborazione tra la Provincia di Napoli e la Fondazione Valenzi e dedicato a Maurizio Valenzi, l’ex parlamentare italiano ed europeo, sindaco a Napoli dal 1975 al 1983.
Il tributo, curato dalla redazione di Metronapoli Web Tv, intende ricordare la figura di Maurizio Valenzi come uomo, politico e artista ma anche ripercorrere, senza settarismi di parte, una lungo periodo di storia e di politica italiana e internazionale.
Nel documentario oltre al ricordo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano compaiono le interviste esclusive ai figli Lucia e Marco Valenzi, all’ex deputato e presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa Andrea Geremicca, all’ex sindaco socialista Pietro Lezzi ed al regista Maurizio Scaparro.
A fare da narratore alle tante immagini inedite reperite attraverso le Teche Rai e l’Emeroteca Tucci è la voce dell’attore Mariano Rigillo mentre la produzione è stata coordinata dal Capo Ufficio Stampa del Consiglio provinciale di Napoli Domenico Pennone. La regia è stata curata da Roberto Maiorca con la consulenza storica di Federica Quatraro.
Paco De Renzis
La Fondazione Valenzi Costituita nel maggio 2009 dai figli di Valenzi Lucia e Marco che ne sono anche rispettivamente il Presidente e Vicepresidente, la Fondazione nasce con l’obiettivo di tutelare e consolidare il patrimonio culturale e politico di Maurizio Valenzi e di creare a Napoli un’istituzione internazionale, non schierata politicamente, attiva nella cultura e nel sociale. Segretario generale della Fondazione è Roberto Race. Sono coinvolte negli organi della Fondazione personalità italiane e straniere della politica, della cultura e dell’imprenditoria, attraverso il Comitato d’Onore, il Comitato di Indirizzo ed i Comitati Scientifici.
Ex Asilo Filangieri – vico Maffei, 4 NAPOLI CENTRO STORICO
Alla CITTADINANZA TUTTA porgiamo il nostro invito
Il Pubblico In_Contro_Scenalibera giornata di studi teatrali pratico \ teorici
INGRESSO LIBERO\ LABORATORI GRATUITI
su prenotazione, fino a esaurimento posti
L’iniziativa è promossa da Maniphesta Teatro
e Teatro dei Sensi Rosa Pristina
Con il patrocinio di Comune di Napoli
e del Forum Universale delle Culture, Napoli 2013
In questo momento il nostro paese vive un caso unico di schizofrenia culturale: da un lato si cerca di cancellare un’intera categoria di lavoratori con i tagli ai fondi per la cultura, con l’eliminazione del sussidio di disoccupazione, con una vertiginosa caduta verso naftaliniche proposte culturali; dall’altro, forse per reazione, ritroviamo un rigoglioso giardino di nuove proposte culturali, autonome, indipendenti, la cui opera di resistenza sta riaprendo il morto dialogo tra pubblico e scena. Queste nuove realtà culturali chiedono al pubblico di prendere una posizione, di esigere il proprio diritto alla qualità, di assumersi il compito di indicare la via giusta per essere riconquistato al valore assoluto di un territorio che produce cultura, che si fa sostenitore di nuovi spazi di autonomia creativa. Alle porte del Forum Universale delle Culture del 2013, vediamo la nostra città farsi promotrice di una possibile rinascita, e crediamo che la forza propulsiva possa essere la DOMANDA, libera e consapevole, e non già un’OFFERTA che distrae, perché lontana da quelli che sono ormai gli interessi di un nuovo pubblico che si va formando sempre più lontano dagli spazi culturali di vecchia frequentazione. Questa nostra giornata di studi vuole essere un invito a porci serie DOMANDE, insieme ai cittadini di Napoli, da considerarsi un campione nazionale, sulla necessità di un’azione di risanamento culturale locale e nazionale, sul valore della partecipazione di tutti, sulle richieste da avanzare all’offerta culturale di questa nostra città, che vive ora una speranza di cambiamento, accompagnata in egual misura alla paura dell’illusione.
I collettivi creativi TeatrInGestAzione, Maniphesta Teatro con Antonella Cilento, Teatro dei Sensi Rosa Pristina, gruppi guidati da metodologie e poetiche differenti tra loro, con Marco Luciano e Salvatore Mattiello rappresentanti di due presidi culturali indipendenti, rispettivamente Studio Teatro (centro storico) e Sala Ichòs (periferia), aprono al pubblico una libera giornata di studi, con laboratori gratuiti, con brevi presentazioni sui processi teatrali creativi, metodologici, produttivi e organizzativi, con un incontro finale in cui vi chiederemo di lasciarci la vostra domanda\quest¿on; cercando di porre le basi per rimettere lo spettatore al centro del discorso culturale locale e nazionale. Le DOMANDE saranno anonime e raccolte su appositi foglietti, distribuiti tra i partecipanti alle attività della giornata, e tra il pubblico presente al dibattito; lette in sede di dibattito, esse costituiranno la base dell’incontro cui vi invitiamo a partecipare.
L’iniziativa è autofinanziata.
Si ringrazia il Forum Universale delle Culture, Napoli 2013
per la concessione degli spazi
PROGRAMMA ‐ ingresso libero
LABORATORI GRATUITI
prenotazione obbligatoria, fino a esaurimento posti
10:00/11:30 ‐ cappella il dialogo tra il drammaturgo e il regista laboratorio teatrale Maniphesta Teatro
a cura di Giorgia Palombi e Antonella Cilento
per un massimo di 25 partecipanti
12:00/14:00 ‐ refettorio Meccanica Emozionale laboratorio creazione collettiva
a cura di TeatrInGestAzione
per un massimo di 9 partecipanti
sono ammessi uditori in numero massimo di 20 a seguire
14:00/14:30 – refettorioMeccanica Emozionale
dimostrazione metodologica
a cura di TeatrInGestAzione
17:00/18:00 ‐ refettorio A passeggio nel buio a cura di Teatro dei Sensi Rosa Pristina
performance esperienziale per uno spettatore singolo fino ad un massimo di 12 prenotazione obbligatoria
18:00/18:30 ‐ cappella L’Angelo della casa performance di avvicinamento alla poetessa Emily Dickinson a cura di Maniphesta Teatro
18:30/20:30 ‐ cappella DOMANDA \ DIBATTITOintervengono i direttori artistici di Studio Teatro e di Sala Ichòs modera Fabio Rocco Oliva, critico teatrale Arteatro
CONSIGLI TEATRALI
da giovedì 24 a domenica 27 novembre al Sancarluccio Teatro
ARETE' ENSEMBLE presentano MEDEA una messa in scena umana.
Presentandovi al botteghino a nome di TeatrInGestAzione
potrete ottenere un RIDOTTO (8 euro)
L’esordio alla regia di Michele Rho non poteva essere più insolito per la moderna cinematografia italiana: la storia è ambientata alla fine dell’800 in un paesino degli Appennini, con ambientazione un casolare desolato in una prateria, per nulla vicino al centro abitato. In questo casolare abitano Alessandro e Pietro, due fratelli di undici e tredici anni diversi come la notte e il giorno ma legati da un affetto indissolubile e da una voglia di vivere come animali selvaggi nella natura in cui stanno crescendo, spensierati e liberi di godersi ogni momento tra tuffi nel fiume, corse con i carretti e scorribande varie. L’evento che interromperà di colpo la loro adolescenza spensierata è la morte della giovane madre e da questa tragedia prende spunto il loro padre burbero e severo per provare a farli crescere rendendoli responsabili: così vende gli ultimi averi della famiglia per comprare due puledri non ancora domati e li regala ai figli dicendogli che da quel momento il loro compito sarà accudire, allevare e ammaestrare quei cavalli “selvaggi” oltre che imparare a galopparli. Con l’aiuto di uno stalliere della zona i due fratelli cominciano il loro percorso di crescita e di scoperta della natura dei cavalli non tanto diversa dalla propria: con la maggiore età Alessandro si sentirà come un animale in gabbia voglioso di oltrepassare quegli insormontabili Appennini per vivere altrove la propria vita, mentre Pietro innamoratosi della figlia del farmacista, Veronica, non vede l’ora di sposarla e di fare l’allevatore nella prateria che lo ha visto crescere. Seppure le enormi differenze tra i due portano i desideri e le aspirazioni a dividere le loro strade, gli affetti familiari e il sentimento profondo che li lega li unirà nelle prove più difficili da affrontare per tenere in piedi i loro sogni.
La neonata casa di produzione Settembrini Film ha azzardato non poco decidendo di cominciare l’avventura cinematografica producendo un’opera come Cavalli (tratta dall’omonimo racconto di Pietro Grossi), ma è stata ripagata dalla buona accoglienza ricevuta alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2011; del resto il lavoro di Michele Rho è ben fatto, e l’intenzione di veleggiare tra l’ambientazione da western bucolico a quella del melodramma di formazione rende la rappresentazione originale anche perché alcuni momenti vengono esaltati da bellissime immagini simboliche del confronto tra uomini e animali nella natura selvaggia. Un plauso a Vinicio Marchione (il Freddo del Romanzo Criminale televisivo ma soprattutto il bravissimo interprete di 20 Sigarette) e Michele Alhaique, i due protagonisti della pellicola che anche se alla lontana ricorda un film del ’92 di Robert Redford, In Mezzo Scorre Il Fiume.
L’opera prima del regista Guido Lombardi prende il titolo dal termine francese con cui gli immigrati africani chiamano l’Europa, definendolo “l’altrove”. “La-bas” ha come sottotitolo “Educazione criminale” e racconta in maniera cruda l’emigrazione e il degrado della zona di Castelvolturno, dove da decenni esiste una comunità fantasma che conta fino a 20mila immigrati clandestini dimenticati da tutto e da tutti e che vengono alla ribalta mediatica solo per fatti di cronaca nera. Purtroppo non è così rara la cronaca nera a Castelvolturno e se esiste parte di quella comunità coinvolta nei traffici illeciti e nella criminalità quotidiana, c’è la maggior parte di loro che prova a vivere in una parvenza di normalità anche se non di legalità, visto che per lo Stato italiano restano clandestini da rimpatriare, lavorando dignitosamente, in troppi casi vittima di vero e proprio sfruttamento al limite dello schiavismo, e provando a diventare parte integrante del paese che la ospita sognando di raggiungere un giorno lo status di immigrato regolare. Il 18 settembre 2008 un gruppo di killer del clan camorristico dei Casalesi, con a capo Giuseppe Setola, uccise a sangue freddo sei immigrati che si trovavano in una sartoria/lavanderia di Castelvolturno, sei vittime innocenti sacrificate dalla brutalità della malavita organizzata che più volte ha minacciato la comunità africana intimando di abbandonare quelle terre perché buona parte di essa si è sempre rifiutata di sottostare alla legge criminale e di diventare manodopera per il lavoro sporco della camorra. Il film di Lombardi, prodotto dalla Figli del bronx di Gaetano Di Vaio, si è appoggiato alla cronaca ispirandosi alla strage del 2008 e racconta la storia di un giovane africano che sbarca in Italia sognando l’arte e ritrova suo zio, da anni a Castelvolturno, che non ha esitato quando ha dovuto scegliere tra lo sfruttamento del lavoro nei campi per la raccolta dei pomodori e l’affiliazione alla malavita, diventando trafficante di droga. La guerra di bande, africani e camorristi, narrata in “La-bas” è fotografia di un’amara e tragica realtà ma anche una precisa intenzione di evidenziare la possibilità di una scelta di campo che non sempre è facilitata dalla società circostante. Bravissimi tutti gli interpreti non professionisti accompagnati dagli attori Salvatore Ruocco e Esther Elisha.
(articolo pubblicato sul quotidiano telematico NAPOLI.COM)
Se bastasse un’immagine iconografica a rappresentare un’opera d’arte This Must Be The Place avrebbe nel volto di Sean Penn, truccato alla stregua di Robert Smith dei Cure per interpretare la rockstar Cheyenne, il suo simbolo perfetto; ma visto che è di Cinema che si parla e che l’opera d’arte in questione è di Paolo Sorrentino sarebbe riduttivo limitarsi a tale rappresentazione. Il personaggio di Cheyenne, la sua storia, sono il mezzo che Sorrentino utilizza per disegnare uno degli affreschi cinematografici più originali e anticonvenzionali degli ultimi anni, anche per merito dell’eccezionale fotografia di Luca Bigazzi. La trama, caratterizzata dal classico sarcasmo sorrentiniano, si divide in due parti legate indissolubilmente dal ritmo flemmatico che il protagonista impone alla narrazione attraverso la fisicità e la parlata: dalla scoperta graduale dell’ex rockstar Cheyenne e del suo modo di vivere a Dublino si vira ad un atipico road movie che accompagna la ricerca di un criminale nazista in giro per l’America. Il sentimento di vendetta che nasce nel protagonista alla morte dell’anziano padre e alla lettura dei diari in cui spiega le umiliazioni subite ad Auschwitz, si manifesta lentamente e inaspettato per la personalità della rockstar che tutto è parso fino a quel momento fuorché un simil angelo vendicatore capace di uccidere qualcuno. E infatti dall’attimo in cui comincia ad investigare per scoprire dove si trova quello che fu il carceriere del padre, Cheyenne non esterna mai emotivamente la sete di vendetta e la sua indolenza lo abbandona solo quando al cospetto dell’amico cantante David Byrne (interpretato da sé stesso) si sfoga confessando ciò che pensa sia stata la propria vita fino ad allora. La magnificenza di This Must Be The Place è nella capacità evocativa delle immagini che ogni singola scena regala allo spettatore; la sceneggiatura scritta a quattro mani dal regista con Umberto Contarello diviene un filtro utile a portare determinate situazioni ad essere rappresentate non tanto con un dialogo quanto con un particolare di ripresa o con un campo lungo piuttosto che con dei movimenti funzionali all’azione dei personaggi tutti degni di primo piano a sottolineare anche solo l’intenzione di approfondire attraverso uno sguardo gli sviluppi interiori di ognuno di loro. Sarebbe stato però solo un perfetto esercizio stilistico questo film se non ci fosse stato ad interpretarlo da protagonista l’attore più sorprendente degli ultimi vent’anni: Sean Penn si è inventato un personaggio magneticamente apatico partendo dalle sembianze del cantante dei Cure per timbrare un’idea di quella tipologia di rockstar studiata con Sorrentino, ma a parte tale spunto reale ha scoperto il suo Cheyenne immaginandosi una camminata dinoccolata, una parlantina incerta e sussurrata, una risata appena accennata che rimarrà nella storia del Cinema, uno sguardo distaccato e assente, e una ballata memorabile sulle note di The Passenger di Iggy Pop cosa che più di ogni altra temeva alla lettura della sceneggiatura. Il racconto non può prescindere dal modus interpretativo deciso da Sean Penn e ogni singola scena è condizionata dalla lentezza di base che caratterizza il suo personaggio, tanto che tutti gli altri interpreti si mettono al servizio di tale anomala condizione narrativa facendo da contraltare in tutti i sensi a Cheyenne, a cominciare dalla bravissima Frances McDormand nei panni della moglie- pompiere che cerca col suo approccio rassicurante di tranquillizzare il coniuge senza scuoterlo più di tanto dallo stato in cui si trova ma stando al suo gioco così da far divenire emblematici tutti i dialoghi che li vedono protagonisti. Elemento fondamentale per questa pellicola è la musica scritta da David Byrne che recita anche in una breve scena oltre a regalare una splendida performance dal vivo della canzone (scritta ai tempi dei Talking Heads) che dà il titolo al film e che fa da tappeto sonoro per tutta la durata della storia: proprio il frammento del concerto di Byrne che canta This Must Be The Place è significativo dell’essenza del lavoro di Paolo Sorrentino, perché l’interpretazione viene mostrata e fatta ascoltare totalmente a differenza della maggior parte delle opere cinematografiche che di tali situazioni ne riportano solo pochi attimi; invece l’importanza sonora, visiva ed evocativa di questa scena sottolineano l’assoluta necessità del regista napoletano di personalizzare il suo Cinema fregandosene di quelle regole narrative e ritmiche alla base dell’omologazione cerebrale di cui è vittima lo spettatore medio contemporaneo. Paolo Sorrentino è un geniale creatore d’immagini e con la sua prima opera lontano dall’Italia ha dimostrato di essere all’altezza di imporre il proprio stile qualitativamente e tecnicamente senza scendere a compromessi con la volontà commerciale dell’industria cinematografica ma servendosene per fare esattamente il film che aveva in mente, grazie soprattutto ad uno straordinario Sean Penn; This Must Be The Place è un’intensa esperienza visiva molto poco convenzionale, che difficilmente incontrerà il piacere unanime del pubblico…ma questo è il prezzo a cui vanno incontro le migliori opere d’arte.
Un atroce dubbio alimenta un’angoscia costante durante i 130 minuti di visione di Melancholia: avrà mai fine questo film? La prima parte dell’opera di Von Trier sembra strizzare l’occhio in maniera poco elegante allo straordinario Festen di Thomas Vinterberg, con un ritratto di famiglia impietoso in questo caso racchiuso in una festa di matrimonio che mano mano scopre i contorni della devastazione mentale della sposa. Eppure la brutta copia di quello che era stato il film capostipite del manifesto Dogma ’95 creato da Von Trier con altri registi danesi non è il peggio che possa assicurare la pellicola, perché le pieghe depressivo-apocalittiche che prende la storia affondano totalmente l’attenzione dello spettatore a cui quasi non interessa più dove vogliano andare a parare i protagonisti spauriti: che siano le due sorelle, tra cui c’è la sposa che non voleva sposarsi e infatti è riuscita a farsi mollare dal marito in tempo per non consumare sfogandosi sul prato con un giovane pseudo-collega di lavoro conosciuto alla festa di nozze, oppure che sia il padrone di casa stramiliardario e razionale all’inverosimile con il figlioletto che ad ogni risveglio avverte che la propria famiglia si sta disgregando in attesa del fantomatico big bang. Dopotutto gli attori non hanno colpa dell’inconcludenza di questa insopportabile storia, anzi sono bravi nel loro ruolo di vittime sacrificali dell’instabilità cinematografica del Von Trier post-dogmatico. Lo scricchiolio avuto con Antichrist ha portato ad una fantomatica lesione autoreferenziale il regista danese a cui si devono alcuni dei film più originali e importanti degli ultimi vent’anni (Dogville – Dancer in the dark – Le onde del destino – Idioti): l’intenzione che aveva nel girare Melancholia era addirittura di allontanarsi il più possibile da una trama liberando l’occhio visionario e invece si è ritrovato ingabbiato in una storia che oltre a evitargli qualsiasi possibilità di sperimentazione visiva (eccetto il breve fascino del prologo) ha reso il film un’ingombrante e noiosa parabola che rimpalla in maniera per nulla lineare tra psicologia e astrofisica, finendo nel clamoroso paradosso di una storia dal sapore decisamente inconcludente nonostante si concluda con la fine di tutto per antonomasia, l’esplosione della Terra.
Lars Von Trier resta uno dei registi più innovativi del Cinema moderno, ma Melancholia è a mio parere un film molto deludente.
Incontro con il regista napoletano per l’uscita di This must be the place con Sean Penn
Nel 2008 la giuria del Festival di Cannes decretò il successo internazionale di un regista italiano che in patria era già da qualche anno alla ribalta per film originali e spiazzanti come L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia: il Premio della Giuria fu consegnato a Paolo Sorrentino dalle mani del Presidente della “commissione” Sean Penn che era rimasto talmente folgorato da Il Divo da esprimere la sera della premiazione il desiderio di lavorare un giorno in una pellicola del regista italiano. A Sorrentino pareva un sogno, a parte il premio, sentire quelle parole da uno dei migliori attori in circolazione; e caparbiamente si è messo d’impegno affinché quel sogno si realizzasse. Nel 2011 in sala è arrivato il risultato dei desideri incrociati del regista e dell’attore: This must be the place diretto da Sorrentino e interpretato da Sean Penn è stato presentato al Festival di Cannes e per l’uscita nei cinema italiani il regista si è concesso a pubblico e giornalisti nonostante non ami per nulla i giri promozionali. Nella sua città natale, Napoli, ha deciso però di triplicare la presentazione del film in un tour de force, più che fisico, emozionale passando dal Cinema Filangieri all’America Hall per terminare con una serata che a Castel Sant’Elmo il NapoliFilmFestival2011 ha dedicato a lui e al produttore/presidente Aurelio De Laurentiis (“e se in futuro lavorassimo insieme?” si sono detti i due). Come sempre Paolo Sorrentino ha reso ognuno degli incontri interessante spaziando dalla sua idea di Cinema alla realizzazione del film “americano” approfittando anche per esprimere un’opinione sul momento attraversato dalla città in cui è nato e cresciuto.
Qual è stato lo spunto per giungere ai temi principali di This must be the place, il ritratto di una rockstar depressa e la caccia a un criminale nazista?
Per quanto mi riguarda, ogni film deve essere una caccia smodata all’ignoto e al mistero. Non tanto per trovare una risposta, quanto per continuare a tenere viva la domanda. Durante la genesi di questo film, una delle tante domande che non mi abbandonavano mai riguardava la vita segreta, misteriosa che, da qualche parte nel mondo, gli ex criminali nazisti sono costretti a condurre. Uomini, ormai, con le armoniose fattezze di anziani innocui e bonari, in realtà preceduti dall’innominabile crimine per eccellenza: lo sterminio di un popolo. Dunque, un rovesciamento dell’immaginario. Per scovare uno di questi uomini ci voleva una caccia e per avere una caccia ci voleva un cacciatore.
Ma come è venuto in mente di scegliere come cacciatore un personaggio così strano come la rockstar Cheyenne?
Qui entra in gioco un elemento ulteriore del film: una mia necessità istintiva di innescare nel dramma una componente ironica. Allora, per raggiungere questo obiettivo, insieme allo sceneggiatore Umberto Contarello, abbiamo cominciato a scartare le ipotesi del cacciatore “istituzionale” di nazisti e pian piano siamo approdati ad un opposto assoluto del detective: una ex rockstar lenta e pigra, sufficientemente annoiata e chiusa in un proprio mondo autoreferenziale da essere così, apparentemente, la figura più lontana dalla ricerca insensata, in giro per gli Stati Uniti, di un criminale nazista, ormai probabilmente morto. Lo sfondo del dramma dei drammi: l’olocausto, e il suo avvicinamento a un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, mi è sembrata una combinazione sufficientemente “pericolosa”, da poter dare vita ad una storia interessante.
Una storia interessante ma decisamente rischiosa sia per il tema della Shoa sia per il modo in cui ha deciso di raccontarla.
Amo fare film che mi espongono al pericolo, perché solo dentro il pericolo del fallimento credo che il racconto possa autenticamente vibrare. Spero di aver scansato il fallimento in questo caso.
Quindi è dovuta a questo la sua intolleranza nei riguardi della trama in un film?
Più che non tollerarla credo che la trama non sia l’aspetto principale, almeno dei miei film; ed è un pensiero che ha a che fare con il mio gusto da spettatore. Amo giocare di più con gli sviluppi interiori dei personaggi.
Qual è stato l’apporto di Sean Penn alla pellicola?
Sean Penn è l’attore ideale per un regista. Perché è estremamente rispettoso delle idee del regista e non solo ha il dono di migliorarle, ma possiede anche il talento sconfinato che gli permette di raggiungere un’autenticità e una profondità sul personaggio che francamente a me sarebbero state sconosciute anche se ci avessi riflettuto una vita intera. In una caldissima giornata di luglio, a New York, abbiamo fatto la prima prova di trucco e costumi con lui: è stato un piccolo miracolo che accadeva sotto i miei occhi, assistere in silenzio alla progressione inesorabile dell’attore Sean Penn, che un passo alla volta, attraverso il rossetto, il rimmel sugli occhi e poi indossando i costumi e infine muovendosi, in un modo naturale e allo stesso tempo diverso da come si muove lui, si trasfigurava in un’altra cosa, diametralmente opposta, che era il personaggio di Cheyenne.
In questo film la musica gioca un ruolo molto importante sia in senso iconografico riguardo alle sembianze del personaggio della rockstar, sia in senso strettamente sonoro riguardo all’accompagnamento e alle canzoni che caratterizzano l’opera: in base a cosa ha fatto determinate scelte?
Il look di Cheyenne è ispirato a quello di Robert Smith, il leader dei Cure. Da ragazzo avevo visto i Cure in concerto diverse volte. Poi, tre anni fa, ci sono tornato e ho visto Robert Smith, ormai cinquantenne, con lo stesso, immutabile look di quando aveva vent’anni. E’ stato impressionante nel senso positivo della parola. Vedendolo da vicino, mentre attraversava il backstage, ho compreso quanto può essere bella e commovente la contraddizione nell’essere umano. Un cinquantenne immerso in un look che si addice per definizione ad un adolescente. E non c’era niente di patetico. C’era solo una cosa che al cinema come nella vita può assumere i contorni estatici della meraviglia: l’eccezionale, inteso come eccezione unica e inebriante, e in parte questo ha influito anche sulla sceneggiatura. Mentre le musiche, come direbbero certe scrittrici di romanzi rosa, le ho scelte col cuore. Al di là della battuta, è proprio così. Non sentivo la necessità, come ho fatto in passato, di “ragionare” sulla musica. Volevo invece rivivere quelle vertigini di passione ed emozione che provavo da ragazzo quando mio fratello, di nove anni più grande, m’introduceva alla bellezza del rock. Ho trascorso quel periodo della mia vita a vivisezionare fino alla patologia soprattutto i Talking Heads e il suo genio, David Byrne. E allora un po’ temerariamente ho chiesto a David Byrne tre cose: di usare “This must be the place” come titolo e canzone portante del film, di comporre la colonna sonora e di interpretare se stesso in un cameo. E, clamorosamente, David ha accettato tutte e tre le cose.
Già da qualche anno non abita più a Napoli: come giudica la condizione della sua città ora che non ci vive più?
L’elezione a sindaco di De Magistris ha portato un’onda di entusiasmo che ha coinvolto tutti, me compreso; ora le aspettative sono alte così come il bisogno di risposte concrete, e questo riguarda anche me che non vivo più a Napoli ma resto napoletano e ci torno volentieri spesso. Non nascondo che conto di tornare a girare quanto prima in città anche perché avendoci vissuto 37 anni la conosco abbastanza e voglio bene a Napoli. Nessun altra città è pari in quanto a creatività e personalità e Napoli è da sempre uno dei più importanti centri culturali del mondo e uno degli obiettivi primari che devono porsi le istituzioni è di favorire le condizioni che riportino la città a primeggiare nella cultura.
(versione integrale dell'articolo pubblicato nel numero di novembre del periodico il mediterraneo)
(articolo pubblicato nel numero di ottobre del periodico il mediterraneo)
La Pasta nera era fatta con quei pochissimi chicchi di grano arso che rimanevano a terra dopo la trebbiatura, i poveri se li contendevano con gli animali, dai nullatenenti era considerata l’ultima risorsa per nutrirsi. Il contrasto tra questo alimento di fortuna, arrangiato, e l’impasto profumato e scintillante delle tagliatelle emiliane è il simbolo del documentario intitolato proprio per questo “Pasta Nera”. Il regista Alessandro Piva, attraverso una scrupolosa ricerca storica, riporta alla memoria uno degli eventi più solidali da quando esiste l’Italia unita: tra il 1946 e il 1952 più di 70.000 bambini del Sud più svantaggiato furono ospitati temporaneamente da famiglie del Centro-Nord; quei bambini presero in quegli anni il primo treno della loro vita, per lasciarsi alle spalle la povertà e le macerie del dopoguerra e vivere un’esperienza che non avrebbero mai più dimenticato. I ricordi dei bambini protagonisti di questa storia, ormai diventati nonni, creano una catena emozionale tra il passato e il presente riportando con i loro racconti, i rari documenti filmati dell’archivio Luce e gli archivi fotografici privati, quelle vicende vissute per merito di un vero e proprio movimento nazionale che in un clima di dolore ma anche di speranza nella ricostruzione del paese si impegnò ad aiutare quella parte del Paese, il Mezzogiorno, che si trovava nelle condizioni peggiori alla fine del conflitto. In un periodo storico in cui, tra estremismi separatisti di forze politiche inspiegabilmente al governo della Repubblica e revisionismi dei nostalgici delle dominazioni straniere, l’Italia viene infangata un giorno si e l’altro pure, un’opera come “Pasta Nera” diviene importantissima per riportare alla memoria collettiva uno dei migliori esempi di solidarietà e slancio unitario nella storia del nostro Paese.
Esiste a Napoli una realtà cinematografica fatta di autori indipendenti che operano grazie ad una ottima manovalanza fatta da giovani artigiani e appassionati della Settima Arte. C’è un regista napoletano che ha mosso i primi passi negli anni ’90 con Paolo Sorrentino affidandogli la fotografia di una sua opera, “Sventramento”, e co-dirigendo con lui un cortometraggio, “Un Paradiso”: Stefano Russo è uno degli “occhi” cinematografici più interessanti del panorama partenopeo e la capacità tecnica unita ad una scrittura intelligente e socialmente creativa rende i suoi lavori originali e mai banali. Chi ha avuto la fortuna di vedere “Sei quello che mangi” e soprattutto il toccante “Il soffio della terra” si è reso conto della scrupolosità stilistica e narrativa di Stefano Russo che anche in un documentario come “Il millimetro nel cervello” è riuscito a stupire e affascinare raccontando la storia di un orologiaio. Il suo ultimo cortometraggio è “Totore”, scritto con Antonio Moreno e presentato in anteprima nella cornice del Teatro Posillipo: un film politico che parte dalla storia di due fratelli, il campione di pesca sportiva Gaetano e il ragazzone ritardato Totore, per affrontare le problematiche di una comunità di pescatori che, alle prese con una crisi quasi irreversibile, non trova nelle amministrazioni locali un supporto utile a proporre soluzioni ma solo autorevoli burattinai da cui farsi sfruttare per promuovere l’immagine del politico di turno a livello mediatico. L’opera è un atto d’accusa, una fotografia amara di “vite sacrificate ai bisogni di una classe politica sempre più autoreferenziale e incapace di confrontarsi con i problemi reali della gente”: nell’affascinante scenario flegreo della zona di Pozzuoli le intense interpretazioni di Fabio De Caro, Pio Stellaccio, Vincenzo Merolla e Gianni Parisi completano significativamente il buon lavoro di Stefano Russo fatto di scene simboliche e immagini oniriche.
Pensate a quattro persone chiuse in una stanza; a 80 minuti di film con solo questi elementi scenici a disposizione: stento a credere che qualcuno verrà attirato in sala da tali e semplici banali dettagli più consoni ad una rappresentazione teatrale. Seppure “Carnage” sia realmente tratto dalla piece “Il Dio del massacro” di Yasmine Reza, ci troviamo al cospetto di una delle opere cinematografiche meglio riuscite degli ultimi anni: una commedia tragica psicologicamente, dark, stracolma di ironia cattiva, cattivissima, una storia a tensione crescente che però non ha nulla a che fare con un thriller eppure ne assume i contorni della narrazione.
Si parte piano e fin troppo tranquillamente dopo aver assistito da lontano, quasi come fossero immagini di un videoamatore, all’evento da cui scaturisce la “carneficina” che si svolgerà tra quattro mura; Hitchcock chiamava “McAfee” quel particolare di una storia che gli consentiva in un film di raccontare tutt’altro, lo spunto per arrivare a trattare argomenti che altrimenti avrebbe avuto difficoltà ad infilare in una sceneggiatura, e la rissa tra due ragazzini, o meglio le botte subite da uno dei due con conseguenti danni fisici, serve a Roman Polanski per addentrarsi come un sociologo nella mentalità dell’uomo contemporaneo. I genitori dei ragazzini si incontrano a casa di quello che è stato malmenato e l’intenzione è di chiarire e magari pianificare una riappacificazione tra i loro figli: ma basta una parola non condivisa nel riportare l’evento per scuotere la situazione, basta un’opinione differente su un comportamento, un cellulare che squilla in continuazione con conversazioni squallide di lavoro avvocatesco imposte all’attenzione di ascoltatori impotenti, un sorrisino o una parolina di troppo su interessi o impiego altrui…la situazione degenera esplodendo in un “massacro” morale di insulti inizialmente velati poi espliciti e taglienti. Scene simboliche come il vomito sui libri d’arte, le riprese che dallo specchio mostrano di spalle chi sta subendo la conversazione con gli pseudo – carnefici a scandire i tempi, i personaggi seduti dapprima di fronte a due a due poi perpendicolarmente senza guardarsi per cercare di scacciare i pensieri e le parole frutto della “carneficina” mentale che stanno vivendo.
La bellezza di questa pellicola sta nell’esporre, nello sbattere in faccia allo spettatore il peggio dell’animo umano che inevitabilmente può venir fuori in condizioni di “cattività” fisica e di labilità psichica in alcuni casi dovuta a personalità fragili o fin troppo accondiscendenti o a eccessiva superbia e arroganza dovuta alla convinzione che ciò che conta della vita finisca con la propria persona e con quello che si fa e si pensa, a prescindere dagli altri.
Quattro interpretazioni eccellenti, stili recitativi agli antipodi e forse per questo complementari per una storia del genere: il “bastardo senza gloria” Christoph Waltz è sontuoso per quanto è divertente ed odioso nel ruolo dell’avvocato in carriera che chiama il figlio undicenne “pazzoide”, e la moglie è interpretata da una bravissima Kate Winslet che per fortuna non ha più nulla a che fare con quella del “Titanic” e raggiunge vette inimmaginabili allora passando in pochi minuti dalla donnina alto- borghese con la puzza sotto il naso ma afflitta e scontenta del matrimonio e della propria vita a un’ubriacona che dopo aver vomitato materialmente sulle rarissime guide di mostre di pittori vomita metaforicamente fuori tutto ciò che in realtà pensa dei padroni di casa, del marito e della propria esistenza; fanno quasi da contraltare ma in modo esemplare gli altri due interpreti, Jodie Foster e John Reilly, che partono come figure idilliache e alla mano per diventare personaggi al limite dell’isteria che si sputano addosso le insoddisfazioni coniugali e l’opinione effettiva che ognuno ha dell’altro.
Se il meccanismo di “Carnage” funziona alla meraviglia è merito senz’altro degli attori che tengono la scena per 80 minuti senza sbavature, ma la direzione magistrale di Roman Polanski che incornicia una sceneggiatura di impressionante efficacia, grazie all’adattamento del regista ma soprattutto alla commedia originaria di Yasmine Reza, eleva la messinscena mostrando attraverso riprese emblematiche l’evolversi della “carneficina” fino alla magnifica scena finale che esemplifica la morale della storia mostrando di nuovo i ragazzini della rissa e come all’inizio, a differenza di tutto il film, senza nessuno che parli.
Capita non di rado che un remake permetta di far riscoprire un film che avendo avuto scarsa distribuzione e facendo parte di cinematografie di paesi poco “commerciabili” era passato inosservato all’uscita in sala; capita invece piuttosto raramente che originale e remake siano entrambi interessanti e di buona fattura. Nel caso di “Blood Story” ci si trova al cospetto di una pellicola che ha fatto riscoprire il film svedese “Lasciami entrare” di Alfredson, stranamente senza farlo rimpiangere ma permettendo di gustare due ottime opere solo in alcuni tratti identiche. Il recente remake americano prova ad esser più fedele al romanzo di Lindqvist da cui la storia è tratta, non rinnegando molte delle caratteristiche delineate in ambito narrativo dalla precedente opera svedese; come solitamente accade nei film americani si è preferito aggiungere più che togliere nel remake, e quindi si trovano personaggi che prima non c’erano come il detective. Ad ogni modo la storia è cupa e tenera, si parla di vampiri e di uccisioni truculente ma anche di un’amicizia, di un amore che nasce tra il piccolo Owen, solitario dodicenne figlio di genitori divorziati vittima del bullismo dei compagni di scuola, e la misteriosa Abby trasferitasi con quello che dovrebbe essere suo padre nell’appartamento attiguo a quello in cui vive il bambino con la madre. I due sono personalità che si attraggono per il loro essere diversi, emarginati forzati per motivi differenti dalla vita sociale dei loro coetanei: se l’approccio è diffidente paradossalmente il consolidamento di un affetto che diventerà protettivo oltre che romantico avverrà quando Owen scoprirà il segreto di Abby. È vero, la storia del vampiro che si affeziona, si innamora di una persona normale non è originale, ma di certo non c’è possibilità di confondere “Blood Story” con “Twilight”; in questo caso i vampiri tornano a fare paura, a far scorrere il sangue, nonostante si parli di bambini protagonisti della storia; non ci sono bellocci pseudo fotomodelli e né addominali scolpiti o scene da videogioco, e soprattutto la sceneggiatura ha ben poco di fantasy, si sfiora il realismo più crudo con il valore aggiunto del personaggio irreale malvagio suo malgrado. Il regista Matt Reeves aveva già sorpreso col finto-documentario “Cloverfield”, ma senz’altro ha fatto un passo avanti con “Blood Story” che non è necessariamente consigliato solo agli appassionati dell’horror perché seppure il sangue sgorghi in scene piuttosto forti non diventa il protagonista assoluto a dispetto del titolo quanto mai inopportuno scelto dai distributori italiani.
Marcello Sannino è nato a Portici nel 1971; da qualche anno si è distinto nel panorama cinematografico italiano grazie ai suoi documentari, alle notevoli doti stilistiche e narrative che hanno fatto apprezzare lavori come “Decroux e il mimo corporeo” – “La passione Suessana” – “Humanitas”.
Il nome di Sannino comincia a girare tra gli addetti ai lavori soprattutto per merito de “L’ultima Treves”, documentario del 2007, in cui con ottima tecnica registica si narra il lungo cammino di protesta, iniziato il 20 agosto del 2004, contro la chiusura della storica Libreria Internazionale Treves di Napoli. Come sottolineato da alcuni critici la narrazione ricorda lo stile documentaristico degli anni ’70, del racconto delle battaglie ideologiche e civili, e tale è divenuta col tempo la questione Treves coinvolgendo personaggi di spicco della cultura partenopea come Erri De Luca, Tullio Pironti e Gerardo Marotta, tutti presenti nella pellicola con i loro pensieri e i loro ricordi; da sottolineare l’emozionante intervento di Marotta che, anche grazie alle inquadrature di Sannino, coinvolge lo spettatore con la sua rabbia e il suo sguardo al limite del pianto , ed è importante notare come partendo dalla vicenda Treves il documentario renda chiaro il problema del ruolo del libraio nella società contemporanea, dove imperano centri commerciali e megastore, nonché le edicole, che vendono testi a prezzi stracciati oltre ad eliminare quasi del tutto il contatto umano tra il lettore e quello che storicamente più di un venditore è un intermediario culturale.
Se il lavoro del 2007 ha fatto conoscere Marcello Sannino nell’ambiente cinematografico, la sua ultima opera, “Corde”, ha confermato ed esaltato maggiormente le straordinarie qualità di videomaker e documentarista già espresse in precedenza: il documentario in questione è il ritratto viscerale ed emozionante di un giovane pugile, Ciro Pariso, dell’ambiente in cui vive e si allena, quartiere Ventaglieri a Napoli, delle persone che lo circondano e delle responsabilità che lo attanagliano e che gli insegnano a combattere fuori e dentro al ring con la medesima concentrazione e intensità anche quando oramai si sente sconfitto. Sannino segue la quotidianità e le vicissitudini di Ciro, interagisce con il protagonista della storia attraverso i dubbi e le emozioni che lo accompagnano e lo condizionano; descrive la storia del ragazzo con riprese del ring così come della vita quotidiana mettendo in parallelo il duro seppur nobile mondo del pugilato con la cruda realtà napoletana di chi deve faticare come può per portare avanti la famiglia cercando allo stesso tempo di non sacrificare i propri sogni e il futuro desiderato.
Ovunque è stato proiettato “Corde” ha riscosso successo e nei numerosi festival in cui è stato presentato ha ricevuto sempre menzioni speciali e riconoscimenti, dal Torino Film Festival al Napoli Film Festival.
Gli ultimi premi per Marcello Sannino sono giunti pochi giorni fa al Salina DocFest che gli ha assegnato il Premio Tasca d’Almerita e quello di Cinbema.doc, maggiore riconoscimento della manifestazione che quest’anno era dedicata al tema dell’identità, e a tal proposito uno dei giurati, Valerio Mastandrea, ha dichiarato di essere stato molto colpito da CORDE “perché per un ragazzo che vive in un ambiente e in una società che non si accorgono di lui è difficile la ricerca di un’identità; dopo questa esperienza capisco ancor di più l’importanza della forma documentario, che ha un linguaggio più forte e più libero del cinema”.
Ciò che sorprende al giorno d’oggi è che i documentari restino comunque opere di nicchia senza mercato destinate ai circuiti festivalieri, quando va bene alle proiezioni in qualche cineforum o circolo culturale: nella televisione italiana, in cui lo spazio per il cinema va gradualmente riducendosi sempre più, esistono piccole roccaforti per i documentari che andrebbero difese come specie in via d’estinzione (Doc3 e la7Doc), la mia speranza è che le opere di Marcello Sannino prima o poi arrivino al grande pubblico attraverso questi canali.
(articolo pubblicato sul periodico il mediterraneo e sul quotidiano on line Napoli.com)
Domani martedì 8 novembre presso il Tribunale di Napoli si celebrerà il processo penale contro uno degli esecutori materiali dell’incendio del ristorante “Ciro a mare”. In aula insieme ai titolari ed ai soci del ristorante saranno presenti i rappresentanti del Comune di Portici e delle associazioni antiracket che in questi anni stanno aiutando i cugini Rossi a riaprire il famoso e prestigioso ristorante delle Mortelle.
Il Comune di Portici, quindi l’associazione nazionale SOS IMPRESA rappresentata dal suo coordinatore nazionale Luigi Cuomo e l’associazione antiracket di Portici guidata da Sergio Vigilante.
Gli avvocati Alfredo Nello e Alessandro Motta sosterranno le istanze di costituzione di parte civile dei cugini Raffaele E Massimo Rossi e delle due associazioni antiracket.
“ Insieme ai titolari del Ristorante “Ciro a Mare”- ha dichiarato Luigi Cuomo - domani saranno tutti i cittadini di Portici e della Regione Campania a chiedere giustizia per il gravissimo danno che la camorra ha voluto arrecare ai giovani imprenditori che hanno detto no la racket e no alla camorra già dal lontano 2001. Il nostro impegno, continua Cuomo, è quello di aiutare i cugini Rossi, insieme a tutte le Istituzioni locali e nazionali, a riaprire il Ristorante al più presto possibile in modo anche più bello e funzionale di prima”
“ Il Ristorante “Ciro a Mare” – ha dichiarato Sergio Vigilante - è un simbolo importante del riscatto dell’economia sana contro la camorra nella nostra città. Ringrazio il Sindaco Enzo Cuomo e l’intera Amministrazione Comunale – ha continuato Vigilante -che hanno voluto testimoniare nel modo più evidente e concreto possibile la loro solidarietà ai cugini Rossi e la loro battaglia per l legalità, costituendosi parte civile in questo importante processo e continuando ad aiutare la società a riaprire quello che sarà per tutti il “Ristorante della legalità”
Da un po’ di anni ha fatto “irruzione” sulla scena della cinematografia breve la bravura di Pippo Mezzapesa: trentenne videomaker pugliese si divide tra cortometraggi e documentari unendo le sue opere con un filo logico, anzi geografico, non tanto immaginario…il Sud; principalmente la sua regione, la Puglia, anche se non si può sottovalutare un’altra caratteristica fondamentale nei lavori di Mezzapesa, e cioè l’ironia, non la comicità costruita a tavolino ma la simpatia e l’umorismo che nascono dai paradossi dell’esistenza facendo ridere amaro il più delle volte. Si devono gustare i cortometraggi Come a Cassano e Zinanà (David di Donatello 2003) per comprenderlo: nel primo si racconta di un dodicenne di Bari Vecchia che si chiama Antonio Cassano, proprio come il campione suo concittadino, ma nonostante la passione e la buona volontà che mette in campo non ha molto talento né grazia nei piedi per diventare come il suo mito.
Zinanà è la storia di Arcangelo Turturro, uomo semplice intenzionato a suonare i piatti nella banda musicale del paese, ma ha il “piccolo problema” di non riuscire mai ad essere a tempo con l’attacco del maestro.
Ma di certo l’opera più spassosa e significativa di Mezzapesa è il suo documentario Pinuccio Lovero: sogno di una morte di mezza estate: Pinuccio ha un sogno piuttosto particolare da quando era bambino, quello di fare il becchino e un giorno finalmente viene assunto a tempo determinato nel cimitero di Mariotto, provincia di Bitonto. Passano i mesi e Pinuccio è ancora in attesa del suo primo funerale; in paese ovviamente sono felici che ancora nessuno sia passato a “miglior vita” ma il becchino novello è smanioso e fiducioso…prima o poi qualcuno morirà. Ancora più che negli altri lavori in questo documentario si avverte la voglia di raccontare la provincia meridionale, con le torride estati e la precarietà di un’esistenza sempre in bilico tra il comico e il tragico.
Il percorso lavorativo di Pippo Mezzapesa è formato da numerose esperienze di diversa natura che vanno dalla regia di spot pubblicitari ed elettorali a quella di videoclip musicali; apprezzato nell’ambito cinematografico è stato chiamato a realizzare il backstage del film Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari e ha fatto scalpore il suo documentario del 2005 Produrre consumare morire con cui indagava sui disastri e le morti causate dal Petrolchimico di Brindisi.
La sua ultima opera breve è L’altra metà : divertente e malinconico il cortometraggio racconta in una decina di minuti la fuga di un’anziana donna da una casa di riposo in cerca del matrimonio della nipote a cui le avevano vietato di andare per motivi di salute.
Se potessi scommettere su un nome per un esordio cinematografico di sicura qualità punterei senza dubbio su Pippo Mezzapesa.
Finalmente è arrivato il momento di verificare se la scommessa è vinta o persa: al cinema esce in questi giorni il suo primo film, Il paese delle spose infelici.