Incontro con il regista napoletano per l’uscita di This must be the place con Sean Penn
Nel 2008 la giuria del Festival di Cannes decretò il successo internazionale di un regista italiano che in patria era già da qualche anno alla ribalta per film originali e spiazzanti come L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia: il Premio della Giuria fu consegnato a Paolo Sorrentino dalle mani del Presidente della “commissione” Sean Penn che era rimasto talmente folgorato da Il Divo da esprimere la sera della premiazione il desiderio di lavorare un giorno in una pellicola del regista italiano. A Sorrentino pareva un sogno, a parte il premio, sentire quelle parole da uno dei migliori attori in circolazione; e caparbiamente si è messo d’impegno affinché quel sogno si realizzasse. Nel 2011 in sala è arrivato il risultato dei desideri incrociati del regista e dell’attore: This must be the place diretto da Sorrentino e interpretato da Sean Penn è stato presentato al Festival di Cannes e per l’uscita nei cinema italiani il regista si è concesso a pubblico e giornalisti nonostante non ami per nulla i giri promozionali. Nella sua città natale, Napoli, ha deciso però di triplicare la presentazione del film in un tour de force, più che fisico, emozionale passando dal Cinema Filangieri all’America Hall per terminare con una serata che a Castel Sant’Elmo il NapoliFilmFestival 2011 ha dedicato a lui e al produttore/presidente Aurelio De Laurentiis (“e se in futuro lavorassimo insieme?” si sono detti i due). Come sempre Paolo Sorrentino ha reso ognuno degli incontri interessante spaziando dalla sua idea di Cinema alla realizzazione del film “americano” approfittando anche per esprimere un’opinione sul momento attraversato dalla città in cui è nato e cresciuto.
Qual è stato lo spunto per giungere ai temi principali di This must be the place, il ritratto di una rockstar depressa e la caccia a un criminale nazista?
Per quanto mi riguarda, ogni film deve essere una caccia smodata all’ignoto e al mistero. Non tanto per trovare una risposta, quanto per continuare a tenere viva la domanda. Durante la genesi di questo film, una delle tante domande che non mi abbandonavano mai riguardava la vita segreta, misteriosa che, da qualche parte nel mondo, gli ex criminali nazisti sono costretti a condurre. Uomini, ormai, con le armoniose fattezze di anziani innocui e bonari, in realtà preceduti dall’innominabile crimine per eccellenza: lo sterminio di un popolo. Dunque, un rovesciamento dell’immaginario. Per scovare uno di questi uomini ci voleva una caccia e per avere una caccia ci voleva un cacciatore.
Ma come è venuto in mente di scegliere come cacciatore un personaggio così strano come la rockstar Cheyenne?
Qui entra in gioco un elemento ulteriore del film: una mia necessità istintiva di innescare nel dramma una componente ironica. Allora, per raggiungere questo obiettivo, insieme allo sceneggiatore Umberto Contarello, abbiamo cominciato a scartare le ipotesi del cacciatore “istituzionale” di nazisti e pian piano siamo approdati ad un opposto assoluto del detective: una ex rockstar lenta e pigra, sufficientemente annoiata e chiusa in un proprio mondo autoreferenziale da essere così, apparentemente, la figura più lontana dalla ricerca insensata, in giro per gli Stati Uniti, di un criminale nazista, ormai probabilmente morto. Lo sfondo del dramma dei drammi: l’olocausto, e il suo avvicinamento a un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, mi è sembrata una combinazione sufficientemente “pericolosa”, da poter dare vita ad una storia interessante.
Una storia interessante ma decisamente rischiosa sia per il tema della Shoa sia per il modo in cui ha deciso di raccontarla.
Amo fare film che mi espongono al pericolo, perché solo dentro il pericolo del fallimento credo che il racconto possa autenticamente vibrare. Spero di aver scansato il fallimento in questo caso.
Quindi è dovuta a questo la sua intolleranza nei riguardi della trama in un film?
Più che non tollerarla credo che la trama non sia l’aspetto principale, almeno dei miei film; ed è un pensiero che ha a che fare con il mio gusto da spettatore. Amo giocare di più con gli sviluppi interiori dei personaggi.
Qual è stato l’apporto di Sean Penn alla pellicola?
Sean Penn è l’attore ideale per un regista. Perché è estremamente rispettoso delle idee del regista e non solo ha il dono di migliorarle, ma possiede anche il talento sconfinato che gli permette di raggiungere un’autenticità e una profondità sul personaggio che francamente a me sarebbero state sconosciute anche se ci avessi riflettuto una vita intera. In una caldissima giornata di luglio, a New York, abbiamo fatto la prima prova di trucco e costumi con lui: è stato un piccolo miracolo che accadeva sotto i miei occhi, assistere in silenzio alla progressione inesorabile dell’attore Sean Penn, che un passo alla volta, attraverso il rossetto, il rimmel sugli occhi e poi indossando i costumi e infine muovendosi, in un modo naturale e allo stesso tempo diverso da come si muove lui, si trasfigurava in un’altra cosa, diametralmente opposta, che era il personaggio di Cheyenne.
In questo film la musica gioca un ruolo molto importante sia in senso iconografico riguardo alle sembianze del personaggio della rockstar, sia in senso strettamente sonoro riguardo all’accompagnamento e alle canzoni che caratterizzano l’opera: in base a cosa ha fatto determinate scelte?
Il look di Cheyenne è ispirato a quello di Robert Smith, il leader dei Cure. Da ragazzo avevo visto i Cure in concerto diverse volte. Poi, tre anni fa, ci sono tornato e ho visto Robert Smith, ormai cinquantenne, con lo stesso, immutabile look di quando aveva vent’anni. E’ stato impressionante nel senso positivo della parola. Vedendolo da vicino, mentre attraversava il backstage, ho compreso quanto può essere bella e commovente la contraddizione nell’essere umano. Un cinquantenne immerso in un look che si addice per definizione ad un adolescente. E non c’era niente di patetico. C’era solo una cosa che al cinema come nella vita può assumere i contorni estatici della meraviglia: l’eccezionale, inteso come eccezione unica e inebriante, e in parte questo ha influito anche sulla sceneggiatura. Mentre le musiche, come direbbero certe scrittrici di romanzi rosa, le ho scelte col cuore. Al di là della battuta, è proprio così. Non sentivo la necessità, come ho fatto in passato, di “ragionare” sulla musica. Volevo invece rivivere quelle vertigini di passione ed emozione che provavo da ragazzo quando mio fratello, di nove anni più grande, m’introduceva alla bellezza del rock. Ho trascorso quel periodo della mia vita a vivisezionare fino alla patologia soprattutto i Talking Heads e il suo genio, David Byrne. E allora un po’ temerariamente ho chiesto a David Byrne tre cose: di usare “This must be the place” come titolo e canzone portante del film, di comporre la colonna sonora e di interpretare se stesso in un cameo. E, clamorosamente, David ha accettato tutte e tre le cose.
Già da qualche anno non abita più a Napoli: come giudica la condizione della sua città ora che non ci vive più?
L’elezione a sindaco di De Magistris ha portato un’onda di entusiasmo che ha coinvolto tutti, me compreso; ora le aspettative sono alte così come il bisogno di risposte concrete, e questo riguarda anche me che non vivo più a Napoli ma resto napoletano e ci torno volentieri spesso. Non nascondo che conto di tornare a girare quanto prima in città anche perché avendoci vissuto 37 anni la conosco abbastanza e voglio bene a Napoli. Nessun altra città è pari in quanto a creatività e personalità e Napoli è da sempre uno dei più importanti centri culturali del mondo e uno degli obiettivi primari che devono porsi le istituzioni è di favorire le condizioni che riportino la città a primeggiare nella cultura.
Paco De Renzis
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